Incontro Ugo con Silvia e i bambini, Riccardo di 5 anni e Letizia di 3 un venerdì uggioso di gennaio, in un tardo pomeriggio post asilo. Ugo lo conosco da più di venticinque anni, è stato il mio testimone di nozze e da più di tre anni è malato di SLA, la ormai non più rara malattia meglio nota come Sclerosi Laterale Amiotrofica. Comunica tramite un sintetizzatore vocale comandato dagli occhi, l’unica parte del corpo che riesce ancora a muovere.
Io e Ugo il giorno del suo matrimonio con Silvia nel 2005 |
D. Chiedo a
Silvia: parlami dell’inizio del vostro rapporto.
R. Ci siamo conosciuti da adulti: un anno di fidanzamento,
oltretutto vissuto a distanza per impegni lavorativi in Cina di Ugo [che è
ingegnere meccanico]. Abbiamo litigato
tantissimo, da fidanzati! Per fortuna ci siamo sposati dopo pochi mesi. Un
giorno, istantaneamente, ho avuto una certezza: che quest’uomo, dalla notte dei
tempi, era stato pensato da Dio per me. Non c’erano altre persone con cui, come
con lui, sentissi di non aver bisogno di fingere. Non potevo lasciarmelo
scappare! Era una delle piccole grandi certezze della vita, intuizioni come
fiammelle che sono la strada per trovare il fuoco. Ci siamo sposati nel 2005,
ti ricordi vero il nostro matrimonio?! Nel febbraio 2008 nasce Riccardo, dopo
poco rimango in attesa di Letizia la cui nascita è prevista per settembre 2009.
A giugno 2009 scopriamo che Ugo è affetto da SLA.
D. Come è andata?
R. Ugo in quel
periodo si sentiva un poco stanco. Un amico fisiatra ha l’accortezza di
indicarci alcuni esami che sembra opportuno effettuare. Il verdetto è
terribile: Ugo è affetto da SLA. Il nostro impatto con la malattia è stato
brutale. Lo specialista ha guardato in faccia mio marito e me, che avevo il
pancione del settimo mese di gravidanza, e ci ha detto senza mezzi termini di
non fare progetti a lunga scadenza; di non accendere un mutuo a dieci anni, e
che se Ugo voleva fare una corsa oggi non la rimandasse a domani perché forse
domani non avrebbe più potuto farla. E’
stato uno choc ed un insulto. Abbiamo
cercato di reagire e di affrontare comunque la realtà inattesa e carica di
angoscia. L’aiuto ci è venuto dal Centro Nemo del Niguarda di Milano, un polo
specializzato per la SLA, dove l’approccio è del tutto diverso: al drastico
“non c’è nulla da fare” che ci eravamo sentiti sentenziare dal medico si
contrappone qui un semplice e concreto “vediamo cosa si può fare”. Ci sono
stati accanto per aiutarci a capire qual è il modo migliore di affrontare la
situazione. Purtroppo, con Ugo la SLA si dimostra subito una brutta bestia
vorace. All’inizio di settembre, quando Letizia nasce, Ugo già fatica a stare
in piedi. Iniziamo mesi terribili, in
cui, con velocità spaventosa, Ugo sembra cedere terreno alla malattia in una
ritirata senza tregua: in pochi mesi è in sedia a rotelle. A febbraio 2010,
dopo un ricovero al Nemo, Ugo non muove più le braccia.
D. Come hai fatto
tu, con i bambini, in questa circostanza ad andare avanti?
R. Quando Ugo
esce dal Nemo, a febbraio, inizia un movimento di amicizia e solidarietà che
ben presto assume proporzioni non previste.
I nostri amici, in particolare quelli del movimento di Comunione e Liberazione
si organizzano in turni: ogni sera arrivano almeno in due, con la cena pronta e
le maniche rimboccate. Certo, questa
situazione ha degli aspetti difficili: significa che la propria casa smette di
essere casa propria, e deve aprirsi per forza ad un via-vai di generosità e
amicizia che ha aspetti bellissimi ma richiede comunque accettazione ed
accoglienza. Nasce una grande attenzione nei confronti della nostra situazione;
eppure, paradossalmente, molte delle persone che vengono qui dicono di farlo
perché si sentono aiutate da noi. Si viene per dare una mano, ma spesso la
motivazione profonda è più forte, e risiede nel bisogno che tutti abbiamo di
essere aiutati. Questo ha del miracoloso. Noi non facciamo proprio niente, non
vogliamo insegnare niente a nessuno, eppure quando qualcuno viene qui poi ci
confida di stare meglio lui stesso, e ci sono diverse persone che chiedono di
poter venire ad aiutarci. Pensa che in parrocchia si fanno i turni perché ogni
giorno ci sia qualcuno che recita il rosario per Ugo. Noi così sappiamo che quotidianamente
qualcuno dedica tempo e preghiere espressamente per noi. Altri hanno
organizzato pellegrinaggi alla tomba di don Giussani, di cui è stata
recentemente inaugurata la causa di beatificazione, per chiedere la grazia
della guarigione. A pregare per noi ci sono persone amiche, ma anche tanti
sconosciuti: addirittura un monastero di clausura in Armenia, a cui un amico ha
raccontato la nostra situazione. La forza della preghiera è tangibile. Per noi,
in particolare per me, è come avere accanto una persona in più. È difficile
spiegarlo, se non se ne ha esperienza: non sono parole vuote, che finiscono nel
nulla, ma è un aiuto veramente concreto e sostanziale. All’aiuto spirituale si
affianca poi l’aiuto pratico. Abbiamo persone che vengono qui e danno una mano
in tutto. Quando ho bisogno di qualcosa, alzo il telefono e trovo sempre una
risposta maggiore delle aspettative.
D. Come sei
cambiata in questi mesi?
R. Ho imparato,
prima di tutto, ad amare mio marito come non avrei mai immaginato e sperato:
sono innamorata di lui e lo risposerei immediatamente, nella situazione in cui
si trova. Ho compreso che una persona non è ciò che può o non può fare: il suo
valore è altrove. E poi ho imparato a chiedere aiuto, amicizia, sostegno e
compagnia. Troppo spesso siamo portati a cercare di far tutto da soli,
arrogandoci il diritto di poter bastare a noi stessi. Invece siamo creature
dipendenti, e Ugo lo mostra in modo eclatante. Lui, oggettivamente, dipende
dagli altri in qualsiasi cosa: dalle più piccole, come grattarsi la fronte,
fino a quelle fondamentali come il nutrirsi o addirittura il respirare. E
tuttavia lui mostra, in modo estremo, quello che ciascuno di noi è. Io stessa
ho imparato a chiedere aiuto, perché oggettivamente non ce la faccio: è una
situazione più grande di tutti noi. Si inizia a vedere che l’uomo è fatto per
stare con gli altri, in un ambito comunitario. Sono convinta che chi muore di
disperazione da un lato non si sia reso conto che ogni difficoltà racchiude
possibilità buone anche per chi lo vive, e dall’altro si sia chiuso in se
stesso, restando solo e così condannandosi all’angoscia. La presenza degli
altri è un immenso aiuto: qualcuno che viene e chiede come stai, come va, se
hai bisogno di qualcosa; e non lo chiede solo per formalità, ma perché
veramente ci tiene a te. Questo ti dà un respiro infinito, ti dà la possibilità
di ripartire, di guardare a coloro che hai vicino e che ami in un modo nuovo tutti
i giorni. E ciò è più che mai necessario, in quanto ogni giornata è segnata
dalla fatica. Fin dal risveglio, Ugo ha
problemi respiratori per via delle secrezioni che si accumulano nella cannula
durante il sonno. Poi bisogna spostarlo per l’igiene personale. Troppo spesso ci si approccia alle persone
con difficoltà di questo tipo come se fossero prima di tutto ammalate. Invece,
Ugo prima di tutto è mio marito: ed è un uomo che ha bisogno di fare una
doccia, come tutti. E, come tutti, Ugo fa la doccia tutte le mattine. Certo, è
una fatica, prima di tutto per lui, perché per spostarlo ci vuole un
sollevatore... Eppure tutto ciò mantiene alta la sua dignità. A noi avevano
suggerito un letto motorizzato, come quello degli ospedali, fin dal primo
ricovero. Noi invece abbiamo scelto di dormire insieme ancora oggi, nel
«lettone», come una qualsiasi coppia di sposi. Vogliamo preservare un ambiente
familiare a tutti gli effetti per i nostri figli. Ugo rimane il papà dei suoi figli: un papà
con dei problemi, un papà ammalato, ma sempre il papà. E tutta la famiglia vive
la fede e la speranza della guarigione.
I bambini si chiedono quando il papà potrà guarire, come se avesse un
raffreddore. Nessuno di noi vive in una prospettiva di negatività senza
speranza: crediamo tantissimo nei miracoli. Potrebbe essere qualcosa di
eclatante: chiudo la porta, vado nell’altra stanza e mi trovo mio marito in
piedi, guarito. E questo potrebbe essere! Oppure, l’altro miracolo sarebbe che
si trovasse una terapia risolutiva per la SLA: e questo è il miracolo che mio
marito chiede a Dio, perché sarebbe la guarigione non solo per lui. E credo che
solo chi soffre come un malato di SLA possa capire cosa vuol dire chiedere la
stessa salvezza per qualche altro malato che nemmeno conosciamo.
D. mi hanno
raccontato che tu e Ugo tenete anche un Corso per fidanzati?
R: Silvia sorride: credo di averli «stesi», i ragazzi che sono
venuti qui! Ho detto loro chiaro e tondo che nella vita non si può sapere cosa
accadrà, e bisogna affrontare coscientemente il passo decisivo della vita,
quello del matrimonio, sapendo che può capitare anche una situazione come la
nostra. Certo, quando si fanno le promesse matrimoniali, «nella salute e nella
malattia», si spera sempre che la malattia non accada. Eppure ci si promette di
restare accanto all’altro anche nel dolore, che può anche essere il dolore di
un tradimento, ma anche quello di veder tradita l’idea che abbiamo dell’altro.
Io, Silvia, ho avuto la grazia, il giorno del matrimonio, di sentire ciò molto
chiaramente: ho fatto quelle promesse con coscienza, quel giorno «c’ero» con la
testa e con il cuore e non ero sopraffatta dalle emozioni. Ho preso in carico
questa missione: perché sposarsi è una missione, come andare in Africa a convertire
e aiutare le persone. Il matrimonio non è soltanto il sì di “quel giorno”, ma
un sì rinnovato tutti i giorni e tutte le sere, quando ci si impegna a non
andare a dormire con il rancore e la rabbia nel cuore, perché il momento di
buio della notte non si estenda a tutta la vita. Anche se l’innamoramento
passa, si riafferma continuamente il significato dell’accompagnarsi
reciprocamente al proprio destino: diventare più veri ogni giorno, raggiungendo
la verità di sé. Ripensando a questi anni di fatica, chi non mi avrebbe giustificata
se avessi mollato tutto? Cosa mi tiene legata ad una condizione familiare come
questa, in cui, oltre ad Ugo, anche i bambini mi richiedono moltissimo? Il sì
delle mie nozze non è un sì soltanto mio, ma è accompagnato dalla presenza di
un Altro. È grazie a Lui che posso oggi guardare mio marito con una tenerezza
ed un amore molto più potenti di quelli del giorno del matrimonio; è grazie a
Lui che mio marito, a sua volta, mi vuole così bene. «Io ho bisogno di te», mi
dice: e non è solo un bisogno di cose da fare... Quale marito ha la libertà di
dire alla moglie una cosa del genere? Il
nostro rapporto è vero perché è molto libero. Ci guardiamo per quello che
siamo, e questa è una meta difficilissima. Noi ci sentiamo «benedetti», perché
a noi, comunque, questa malattia ha portato tanta Grazia. Le nostre promesse
sono state pronunciate davanti ad un Altro che vive con noi, e la cui presenza
e vicinanza è ciò che ci tiene insieme e ci aiuta ad avere pietà dei nostri
limiti: di quelli dell’altro, ma anche dei propri. A volte, inconsapevolmente,
mi capita di far male ad Ugo: e lì, prima di tutto, è a me stessa che devo
chiedere perdono, ammettendo di essere limitata e di non poter far bene ogni
cosa. Amarsi vuol dire non partire dal proprio limite, bensì dalla presenza
dell’altro. Anche perché non sarebbe stato mica facile vivere con Ugo in ogni
caso: è un testone terribile! (E questo è vero, lo posso sottoscrivere anch’io!)
Grazie Silvia e grazie Ugo per la vostra testimonianza.
...Io che ho un pessimo rapporto con la malattia e non sono ancora venuta a trovare Ugo e Silvia, mi commuovo davanti a questa intervista...
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