Ci sono persone così povere che l'unica cosa che hanno sono i soldi.

Santa Madre Teresa di Calcutta

domenica 21 dicembre 2014

Riflessioni sul Natale

Quest'anno abbiamo scelto l'ultima intervista pubblica che Don Luigi Giussani rilasciò nel 2004 all'allora direttore del TG 2 RAI Mauro Mazza.

Queste sono le parole che detta e che vengono lette da uno speaker durante l'edizione serale del telegiornale del 24 dicembre 2004: «Perché Gesù viene? Come può l'uomo di oggi stare davanti a questa notizia? E il Natale, che cos'è? Natale è l'amore di Cristo all'uomo. L'Essere nuovo entra nel mondo. L'Essere nuovo come prima non c'era, nella novità del suo comunicarsi agli uomini. Un Essere nuovo entra nel mondo, il mondo del Dio vero. Un Essere nuovo in tutto il profilo del mondo, in quel luogo, fiorì. Tutto viene da Lui, ma qui la novità di una vita predomina. Una nuova creatura vince l'antica. L'antica creazione alla nuova si oppone, ma col Natale il calore ritorna nel mondo, e tutto riecheggia all'appello divino, al Mistero che c'è. L'impossibile, cioè il Mistero, è immeritato dall'uomo. Eppure qui avviene un fuoco, una affezione che avvolge, un calore che predomina nell'immenso atrio del mondo, nello spazio eterno. Qui è il presentimento di una cosa nuova che infervora, e tutto tende a fare diventare concreto. E proprio per questo suscita una grande devozione».

Da "Vita di don Giussani" di Alberto Savorana (ed. Rizzoli)





lunedì 8 dicembre 2014

Italiani state sereni



Ma l’Italia ha un problema reputazionale?

Vi ricordate come è iniziato il 2014? Con la famosa frase pronunciata dall'allora sindaco di Firenze: Enrico stai sereno! Dopo poche settimane Renzi divenne Primo Ministro al posto del collega di partito, quasi senza colpo ferire e con un programma rivoluzionario per noi italiani: in 100 giorni avremmo avuto tutte le riforme promesse e mai realizzate nei venti anni precedenti. 

Poi i giorni da 100 sono diventati 1.000 e il cammino riformista del Premier ha dovuto fare i conti con l’italica realtà, abbandonando il magico mondo dell’adolescenza e della gioventù dal quale il nostro leader e i suoi fedeli leopoldini sono stati generati ed hanno mosso i primi passi.

Come può essere credibile uno Stato che propone tre Governi in tre anni?

Come può essere attendibile un Premier che quando faceva opposizione interna al PD di Bersani e Letta si dichiarava a favore del mantenimento dell'art.18 e da Primo Ministro propone la sua abolizione nel Job Act? In questi mesi, sul fronte interno, a cosa abbiamo assistito? La riforma della legge elettorale è stata solo abbozzata, quella istituzionale neppure. La riforma del lavoro ancora da riempire di contenuti. La spending review ferma al palo dopo la vendita di 10 auto blu. Gli 80 euro non hanno generato il volano previsto e l'economia è in completa stagnazione.

Per quanto riguarda la politica estera, sinceramente dal semestre europeo a guida Renzi ci si aspettava qualcosa di più. Sul tema Ucraina vi è stato il completo appiattimento sulle posizioni statunitensi, provocando tra l’altro proprio alle imprese italiane un importante danno economico e creando con la Russia di Putin un congelamento delle relazioni bilaterali Europa – Russia che potrebbe spingere in futuro i russi a guardare più verso oriente che verso occidente. 

La situazione nel Mediterraneo è completamente fuori controllo e quello che sta accadendo in Paesi come la Libia, a due passi da casa nostra, è sotto gli occhi di tutti. Francamente non si capisce cosa si stia aspettando per affrontare la questione: forse la creazione di un nuovo califfato dell’Isis in Cirenaica? Infine la situazione dei due militari italiani ancora prigionieri in India è lontana dall'essere risolta. Anche in questo caso il Governo Renzi non è riuscito ad imprimere quella svolta che noi tutti ci aspettavamo e che avrebbe tra l’altro giovato moltissimo in termini di immagine al nostro Paese. 

I problemi veri dell'Italia di fine 2014 sono ancora tutti fermi al palo: la riforma della giustizia ed in particolare la rapidità nell’esecuzione dei processi e la certezza della pena. Due aspetti che portano con se' la lotta alla corruzione che ci vede anche quest'anno maglia nera in Europa, senza considerare l’ultima inchiesta che sta riguardando il comune di Roma. La riforma della pubblica amministrazione, vera piaga del Paese e responsabile dei mancati investimenti esteri nel nostro Paese, altro che articolo 18. La riforma generale del fisco che dovrebbe però essere affrontata a livello dei Ministri delle Finanze europei, se vogliamo tenere in considerazione il recente scandalo che ha colpito il nuovo Presidente della Commissione.

La lotta ai centri di potere economici e finanziari (oligopoli si chiamavano una volta, prima della loro abolizione sulla carta) che ancora esistono e dettano la propria linea ai Governi. Un caso per tutti: il prezzo del barile di petrolio è sceso del 30% da inizio anno, mentre il prezzo alla pompa di benzina e GPL è stabile, granitico. Qualcuno nel Governo Renzi si è accorto di questo fatto oppure tutti i membri dell'esecutivo usano la bicicletta per gli spostamenti?

Insomma, cose da fare in Italia ce ne sono tante e forse non basterebbero neppure 1.000 giorni per portarle a termine tutte. Quindi non hanno totalmente torto le società di revisione che rivedono al ribasso il nostro rating. Ed anche la cancelliera Merkel avrà sbagliato la forma, ma nella sostanza ha un po’ di ragione nell'affermare che i cambiamenti reali visti quest'anno in Italia sono oggettivamente pochini.

La reputazione di Renzi è ad un bivio: o riesce nei prossimi mesi a portare a casa qualche risultato concreto sul piano delle riforme che però produca anche effetti concreti sui risultati economici, oppure gli italiani lo abbandoneranno. Gli ultimi sondaggi effettuati mostrano che la popolarità del Premier è in discesa, dal picco massimo toccato alle europee, ma dicono anche che secondo una maggioranza crescente, gli italiani ritengono che la punta più bassa della curva della crisi sia alle spalle.

Non sappiamo su quali basi razionali poggi questa convinzione, ma ci fa piacere sapere che la maggioranza degli italiani, dopo cinque anni, si sia stancata di tifare per i gufi e stia guardando ad altri animali.

Italiani state sereni: tra poco sarà Natale e sono in arrivo Babbo Natale con le sue renne. Dopo Renzi potremmo affidarci a lui e il nuovo animale di moda non avrà più le ali, ma le corna.

domenica 16 novembre 2014

Interstellar

Interstellar, USA e Regno Unito, 2014, Regia di Christopher Nolan



Recensione di Alberto Bordin


Se il cinema fosse un viaggio acquatico, i Nolan sarebbero degli esperti di rafting. Viaggi all’apparenza brevi ma perigliosi, muniti di strumenti semplici ma che richiedono acume e tecnica, un’avventura sportiva, quasi acrobatica, spaventosamente semplice ed emotivamente complessa. Ma con Interstellar, i due fratelli hanno deciso di affrontare diverse acque: i colpi di pagaia dentro correnti torrentizie lasciano il posto alle vele del galeone, dentro il viaggio antico e abissale del profondo oceano. È una proposta rivoluzionaria, prima che al cinema alla loro carriera, volgendo la testa verso un genere più lineare e di largo respiro, molto più lento e diluito, apparentemente semplice nella sua realizzazione, ma produttivamente carico di rischi. Con Interstellar i fratelli Nolan hanno abbandonato il puzzle, hanno abbandonato la narrazione a spirale, la caduta nel vortice, i tortuosi montaggi serrati, gli arguti giochi di investigazione e caccia al ladro, dedicandosi con cinefila passione al genere fantascientifico, ai viaggi interstellari, alla visionarietà del 2001 di Kubrick, all’armonia degli Incontri Ravvicinati di Spielberg – o meglio dire di Williams; comunque non a caso Jonathan aveva scritto la sceneggiatura per il regista di E.T. –, dove la complessa struttura tridimensionale del vortice si schiaccia come una molla, chiudendosi in due dimensioni in una più classica narrazione circolare, non a caso uno dei temi fondanti del film. E parlando di temi, i Nolan non azzardano di meno.

Interstellar è il primo film di Nolan a respirare speranza, è il suo primo film a nutrirsi di una promessa buona. Gli uomini usavano alzare gli occhi al cielo e guardare alle stelle mentre ora li abbassano al fango che li circonda; ma l’uomo, che è nato sulla Terra, non è destinato a morirvici. Cooper questo lo sa, è mosso da questa coscienza, di un destino più grande, dal desiderio di un compimento per sé e per chi gli è caro. Per questo la sua ambiziosa passione per lo spazio non trova riposo, e sempre per questo non c’è delusione nel desiderio di suo figlio di dedicarsi all’urgenza del quotidiano, per quanto anonimo; è il cuore il metro degli uomini.

Amorevolezza: è lei la vera forza centripeta di questa storia, il motore che tutto muove e a cui tutto torna. In un mondo in cui spazio e tempo sono relativi e si cercano costanti cui aggrapparsi, strumenti per cui vivere, può l’affezione, quel legame che ci lega oltre il tempo, oltre la memoria e addirittura la morte, può veramente essere messa da parte? Dovendo – scientificamente – scegliere se seguire la destra o la sinistra, davvero è senza valore che in una direzione ci sia la persona che amo? Perché l’amore è conoscenza, è scienza; “l’amore è quantificabile”, ossia è un fatto, agisce nella storia, nel mondo, e lo trasforma. L’amore di un padre per una figlia non può non contare, anzi è tutto ciò che conta, l’intero destino della razza umana dipende da esso, per cui quell’uomo, e solo quell’uomo, può compiere ciò per cui è stato chiamato.

Una simile proposta non può non toccarci, ci riguarda nel profondo, ci punge nell’intimo chiamando in causa tutto il nostro umano, ridestando un io assopito, infiammando un io desto.

Eppure così da solo non basta.

Così, da solo, quello che raccogliamo è un concetto, è un discorso. Nolan ci offre uno splendido trattato morale, qualcosa da assimilare e di cui è certamente bene fare verifica. Ma non è questo il cinema. Perché il cinema è arte.

Vogliamo tenerci distanti da insipidi battibecchi di un cinema alto o basso, lontani dai tentativi ideologici di distinguersi per una elevata produzione culturale. Il cinema è arte per il semplice fatto che, come solo l’arte può, permette di conoscere qualitativamente e non quantitativamente. Tutte le scienze umane conoscono il mondo quantitativamente. È un accumularsi di conoscenza: non posso comprendere un’equazione se non conosco le tabelline, e sarò all’oscuro della legge della relatività di Einstein senza una laurea in fisica quantistica; il mondo si svela per livelli, e solo agli eletti è permesso di conoscerlo. Ma l’arte salta ogni classe sociale e divisione culturale, attingendo all’unica sostanza che tutti condividiamo, lo strumento di cui tutti siamo in possesso: il cuore, e la sua esperienza. Il cinema è per i villici, non per le élites. Il cinema, come l’arte, è per i bambini, colpisce l’uomo nella sua origine, nella sua sorpresa e corrispondenza primordiale; tra le opere dell’uomo, infine è l’arte la nostra salvezza. E quindi, se non per questo, per cosa vale un film?

Se ci stimola intellettualmente ma non ci commuove, se stuzzica i nostri neuroni ma non ci punge le interiora, se ci tortura le meningi ma non spreme i nostri vasi lacrimali, convocando il pensiero ma dimenticando l’emozione, allora come possiamo giustificare la nostra presenza in sala?

Le storie sono come un vaso rotto che va ricomposto. Interstellar ci insegna come si ricompone il vaso; ma quello di cui avevamo bisogno non era il vaso ma il vasaio. Non ci basta sapere “che l’amor move il sole e l’altre stelle” ma dobbiamo conoscere “l’amor CHE move il sole e l’altre stelle”, ossia invece che l’idea, l’avvenimento. Non il concetto di amore ma uomini che amano; non un cogitare ma un avvenire, un compiersi, qui e ora, in queste tre ore di pellicola.

E tuttavia, nella confusione, nell’accalcarsi di buoni propositi, nello spalancarsi di un cinema tutto da citare e autoriferito, infine si perde l’essenziale, si perde l’occasione di rappresentare quella deliziosa verità – renderla presente – tangibile esperienza in quelle preziose ore di film – in un qui e un ora – riducendosi a poco più che un rimando, occasione per altro loco, per altro tempo. E il cinema non è questo. Non deve essere questo.

La delusione più grande è una grande occasione perduta. E Interstellar è una dolcissima proposta umana. Ma bisogna ancora farne un film.

mercoledì 12 novembre 2014

Elogio del consociativismo

25 aprile 1945


Il consociativismo che ha contraddistinto per decenni la vita politica del nostro Paese è stato da alcuni considerato una delle anomalie italiane, intendendo con il termine anomalia qualcosa di negativo. Per consociativismo noi intendiamo una forma di governo che garantisca una rappresentanza proporzionale ai diversi gruppi che compongono un paese profondamente diviso per ragioni storiche, etniche o religiose. L'obiettivo sarebbe quello di garantire la stabilità stessa del governo, assicurare la sopravvivenza degli accordi di divisione del potere e la sopravvivenza della democrazia, evitando in ultima analisi l'uso della violenza. 

Dal nostro punto di vista quindi il consociativismo è da considerarsi un valore positivo della vita politica e nella sua forma più alta, le scelte consociative attuate da politici responsabili dovrebbero tendere al raggiungimento del bene comune della Nazione. 

Sin dalla sua genesi, il nostro Stato unitario è stato "costretto" al consociativismo. Il Regno d'Italia nacque per impulso di un singolo Stato che da solo rappresentava una piccola parte della penisola, sia da un punto di vista economico che propriamente territoriale. La conquista "violenta" dello Stivale da parte del Regno sabaudo con tutte le conseguenze che ne derivarono, obbligò per forza di cose i politici del tempo, sia di destra che di sinistra, a cercare la condivisione del potere per gestire la cosa pubblica, desiderando mantenere la pace sociale interna e l'unità nazionale. In effetti solo il fascismo interruppe lo sviluppo del pensiero consociativo in Italia, anche se il corporativismo fascista voleva essere un richiamo al principio consociativo che comunque riprese all'indomani della caduta di Mussolini, con l'avvento del periodo repubblicano.

Fu la stessa nascita della Repubblica, ancora oggi non accettata da alcuni gruppi di nostalgici fedeli alla monarchia, a riportare subito in auge la necessità di condividere il potere per risanare le ferite della guerra civile e il passaggio alla nuova forma di Stato. E’ corretto ammettere che nel periodo della prima repubblica, il consociativismo diede risultati positivi, permettendo lo sviluppo e la crescita del nostro Paese. L’Italia infatti raggiunse le prime posizioni nella classifica mondiale dei Paesi più sviluppati. Tipicamente i due partiti "accusati" di consociativismo furono la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, entrambi di estrazione popolare.

I critici del consociativismo evidenziano come quasi tutte le più importanti leggi e riforme votate dal parlamento italiano nel periodo 1950 fine anni ‘80 (sino al periodo del terrorismo), siano state volute da entrambi quei partiti che, sulla carta, si presentavano agli antipodi per quanto riguarda i principi ispiratori e la visione di sviluppo che avevano sull’Italia. Questo fatto in massima parte è vero (ci sono gli atti parlamentari a testimoniarlo), ma non è certo che abbia una valenza negativa, anzi.

La questione morale, già denunciata negli anni '70 sia da Berlinguer che da alcuni esponenti democristiani (Moro), divenne ad un certo punto il fattore decisivo della vita politica. E la questione morale, diciamolo subito, nulla ha a che fare con il consociativismo. Semmai, con l’avvento di Craxi e del craxismo entrò nella vita politica italiana un nuovo modo di leggere il consociativismo. Dagli anni 90 il meccanismo iniziò ad incepparsi e a dare cenni di invecchiamento. L'ingranaggio poco per volta si fermò. Nella vita pubblica, a prevalere fu l'interesse di una singola parte al governo, escludendo dalla divisione del potere le altre forze. Le nascenti lobby, esterne ai partiti, condizionarono nel tempo l'attività politica, forti di un potere economico e finanziario sempre crescente, generatosi e sviluppatosi grazie proprio al consociativismo dei decenni precedenti. 

Di fatto nel corso degli ultimi trent’anni i partiti politici intesi come partiti popolari hanno esaurito la loro spinta propulsiva in seguito anche al mutamento radicale della società italiana, sempre meno contadina e paesana e sempre più industrializzata e terziarizzata nelle città. Dalle loro ceneri sono nate nuove organizzazioni di gestione del potere che non hanno manifestato interesse ad operare con una logica consociativa vecchio stampo, bensì hanno operato con una logica di spartizione del potere, sia politico che economico. 

Così facendo però è sotto gli occhi di tutti che l'agire della nuova classe di politici non ha generato un reale progresso nel Paese, ma anzi ha prodotto di fatto lo stallo politico, economico e sociale in cui versa l'Italia di oggi ed ha lasciato, e forse è il frutto più amaro, una Nazione divisa, rancorosa e sfiduciata. 

2. CONTINUA

sabato 8 novembre 2014

L'anomalia italiana



5 Governi in 7 anni


La crisi economica che stiamo attraversando ebbe inizio negli Stati Uniti alla fine del 2007 con lo scoppio della bolla del mercato immobiliare. Dall’anno successivo, trasformatasi in crisi finanziaria, si trasferì in Europa e quindi nel resto del pianeta.

Dal 2008 ad oggi, in Italia, si sono alternati 5 Governi: Prodi sino a maggio 2008, poi Berlusconi sino al novembre 2011, quindi il tecnico Monti fino all’aprile 2013 per passare al Governo Letta (eletto a seguito delle elezioni politiche) restato in carica sino al febbraio di quest’anno, quando è stato sostituito dal Governo Renzi, alternanza decisa dalla maggioranza del Partito Democratico, principale forza della maggioranza governativa.

Nello stesso periodo (2008-2014) il Regno Unito ha visto 2 Primi Ministri, dal giugno 2007 Gordon Brown e dal maggio 2010 David Cameron, tuttora in carica. La Germania ha il medesimo Cancelliere dal novembre 2005, Angela Merkel. In Francia si sono alternati due Presidenti: dal maggio 2007 Nicolas Sarkozy e dal maggio 2012 François Hollande, ancora in carica. Anche la Spagna ha visto due Primi Ministri: dall’aprile 2004 José Luis Rodríguez Zapatero e dal dicembre 2011 Mariano Rajoy. Negli Stati Uniti infine la crisi è stata tutta gestita dal Presidente Obama in carica dal gennaio 2009.

Sarà un caso che tutti i Paesi citati, ad eccezione del nostro, abbiano affrontato la crisi economica e ne stiano uscendo, di fatto, prima e con migliori prospettive, dell’Italia?

Certamente uno dei pregi (o dei difetti?) di noi italiani è quello di avere la memoria corta e di dimenticare presto tutte le promesse, non mantenute, dei nostri leader politici. Ma è anche vero che un Paese che vuole gestire una crisi economica mondiale come quella che stiamo attraversando, non può cambiare 5 Governi in 7 anni. 

Come si possono prendere decisioni strategiche nei vari ambiti della vita pubblica senza poi avere il tempo di vederle attuate e soprattutto il tempo per verificare se le scelte effettuate abbiano portato i benefici previsti?

Prendiamo ad esempio la riforma del mercato del lavoro (c.d. Jobs Act) che l’attuale Governo Renzi ha deciso di portare avanti. Nel dicembre 2011, il Governo Monti, dopo solo un mese dal suo insediamento, fece approvare dal Parlamento la c.d. legge Fornero, una pesante riforma che colpì sia il mercato del lavoro sia il settore previdenziale. Ebbene a distanza di neanche tre anni si pensa di ricominciare tutto da capo e nel farlo, non si modificano solamente quelle parti della precedente riforma che si è già visto non funzionare (ad esempio l’allungamento dell’età pensionabile che ha di fatto creato un blocco all’assunzione dei giovani), ma si decide di partire da zero, rinnovando tutto il settore del mercato del lavoro. 

Ma siamo così sicuri che questo modo di procedere sia quello giusto?

E’ vero, oggi il mondo corre ad una velocità non immaginabile anche solo cinque anni fa, ma scelte così importanti per la vita di un Paese, come quelle in materia economica e sociale, dovrebbero essere prese non sull’onda del “fare qualcosa purché si faccia presto e subito”. 

Certamente la situazione è grave e la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani, è una delle cause che contribuisce al perdurare della situazione di crisi, creando di fatto uno stallo economico-sociale nel Paese. Ma è proprio per questo che le scelte prese oggi dovrebbero essere ben ponderate e condivise il più possibile con tutte le parti in causa: associazioni di categoria, lavoratori, imprenditori, sindacati. 

Solo così si può ottenere che il Paese remi tutto dalla stessa parte, altrimenti la navicella Italia resta ferma mentre tutte le altre imbarcazioni stanno già uscendo dalla secca. 

L’anomalia della vita pubblica italiana dipende da noi stessi: non abbiamo ancora compreso come la ricerca del bene comune debba essere anteposta all’ottenimento di benefici personali, per la mia famiglia, il mio gruppo, il mio partito.

Se non impariamo, in questo caso sì in fretta, questa lezione, tra pochi mesi avremo un nuovo Governo, una nuova riforma e un Paese ormai impantanato nelle sabbie mobili che lentamente lo cancelleranno dal panorama mondiale delle nazioni più industrializzate. E per l'Italia non parleremo più di crisi economica, ma di declino economico... 

E’ questo che vogliamo?

1.CONTINUA

domenica 12 ottobre 2014

Ugo, la SLA e la maglia di Pogba


Conosco Ugo da quasi trent’anni, è stato il mio testimone di nozze e da più di quattro anni è malato di SLA, la ormai non più rara malattia meglio nota come Sclerosi Laterale Amiotrofica. Vive a casa sua insieme alla moglie Silvia e ai suoi due splendidi figli, Riccardo che quest’anno frequenta la prima elementare e Letizia di quattro anni che è nata quando Ugo era già malato. Ogni giorno poi transitano dalla sua abitazione tanti amici che non fanno mancare il loro appoggio morale e materiale. 

Qualche giorno fa, il 4 di ottobre, Ugo ha compiuto i suoi primi cinquant’anni. Un evento non previsto per il primo medico che gli ha diagnosticato la malattia e che gli aveva predetto al massimo due anni di vita. Ad oggi ne sono passati più di quattro.

Alcune settimane prima, Silvia ha pensato di organizzargli una festa a sorpresa ed ha contattato tutti i suoi amici per invitarli a questo momento. Eravamo più di cento intorno ad Ugo e alla sua famiglia a fare festa. 

Per questa ricorrenza così importante, mi sono detto, ci vorrebbe un regalo speciale, ma cosa regalare ad Ugo? Pensa e ripensa, ad un certo punto ecco la lampadina accendersi! 

Piccolo antefatto: Ugo è un tifoso sfegatato della Juventus! Quando potevamo ancora scambiarci amichevoli “insulti” calcistici (chi scrive è profondamente interista) lui era straordinariamente attaccato ai colori bianconeri che difendeva “a prescindere” da qualsiasi evidenza della realtà (almeno così la vedevo io!). Purtroppo ora che Ugo è intubato e non può usare neanche più il sintetizzatore vocale, gli scambi verbali si sono come dire, affievoliti, ma sono sicuro al 100% che dentro di sé è rimasto il solito ultrà juventino… 

A questo punto, decido di scrivere una mail alla sua squadra del cuore, la Juventus. Presento Ugo e la situazione che sta vivendo e chiedo, se possibile, in regalo una maglia della società con la firma dei calciatori da portare ad Ugo come regalo di compleanno. Credo proprio che lo farebbe felice.

Passano i giorni e arriva anche il 4 ottobre, compleanno di Ugo. Nessuna risposta. Non importa, penso, con tutte le richieste che la società riceverà da tutto il mondo, magari la mail non l’hanno neanche letta. Comunque facciamo una bellissima festa ad Ugo, in un cortile all’aperto di fronte alla sua abitazione e anche il sole esce a fargli gli auguri. Proprio un bel compleanno!

Venerdì 10 ottobre alle ore venti suona il mio citofono di casa e un corriere annuncia che deve consegnare un pacco alla mia attenzione. Strano. Non aspettavo nulla, né da Amazon né da altri e non avevo ancora ordinato la spesa on line. Domando: chi è il mittente? Juventus, la risposta!

Non ci posso credere! Vuoi vedere che mi hanno spedito la maglia? Corro di sotto a prendere il pacco e lo apro con delicatezza. Non si sa mai…con i “bianconeri” meglio andarci cauti…ma devo ricredermi, dentro, con dedica personale per Ugo, c’è la maglia di Pogba! Questa Juventus…in Zona Cesarini riesce sempre a stupire!

Chissà cosa penserà Ugo quando l’indosserà? 



venerdì 3 ottobre 2014

A tu per tu con: Alberto Bonfanti


Incontriamo oggi il Prof. Alberto Bonfanti, docente di Storia e Filosofia alle scuole superiori e Presidente dell’Associazione Portofranco Milano onlus, un centro di aiuto allo studio rivolto agli studenti delle scuole medie superiori che offre assistenza didattica gratuita nello svolgimento dei compiti, nel recupero dei debiti formativi e delle conoscenze disciplinari.

D.: Ci racconti cos’è Portofranco e come nasce questa realtà?
R.: Portofranco è un luogo dove alcuni volontari (adulti e studenti universitari) aiutano i ragazzi più giovani a studiare.
Nasce dall’idea di un grande educatore, Don Giorgio Pontiggia, una vita passata in mezzo ai ragazzi, a scuola e all’oratorio, che a sua volta è partito dalla necessità di soddisfare la domanda di significato, di senso di compagnia dei ragazzi di fronte alla vita. Per rispondere a questo bisogno, Don Giorgio è partito dalla vita quotidiana dei ragazzi e dai loro bisogni. Un bisogno che hanno tutti i ragazzi che frequentano la scuola è quello di fare i compiti e di essere aiutati in quelle materie più “impegnative”, mi viene in mente la matematica per capirci. Così è iniziata l'avventura di Portofranco Milano nel novembre 2000. Da quel momento un crescendo di iscrizioni. Ora abbiamo ogni giorno oltre 100 ragazzi che vengono aiutati singolarmente nelle più diverse materie da una cinquantina di volontari (40 universitari e 10 adulti) al giorno... Facendo un calcolo sono passati da Portofranco dal 2000 ad oggi oltre 20.000 ragazzi per oltre 8000 volontari per circa 100.000 ore di ripetizioni.
Prof. Alberto Bonfanti

D.: Il bisogno educativo è uno dei grandi bisogni che la nostra società mostra drammaticamente di avere, a tutti i livelli, quello degli educatori e quello degli educati. Come educatore cosa si può fare per rispondere a questo bisogno oggi nella scuola italiana? 
R.: Oggi a scuola, come nella vita i giovani sfuggono il rapporto con la realtà. Proprio questo sembra il problema. I ragazzi hanno paura della realtà e questo si documenta nel disimpegno, nel terrore della fatica, nella paura del futuro, nel non poter concepire qualcosa che non riescono ad immaginare. Magari hanno interessi, ma hanno paura di qualcosa d'altro, della realtà. 
Portofranco da questo punto di vista è una grande provocazione per me, sia come insegnante che come Responsabile, perché in qualche modo mi richiama al mio stesso bisogno di significato. Può succedere che i ragazzi di oggi lo nascondano con un apparente disinteresse, o con la difficoltà a prendere sul serio la realtà e l’impegno con essa, ma al fondo hanno lo stesso bisogno di verità, di senso e di gusto che ho anch’io. Il compito di noi educatori consiste proprio in questo: trasmettere ai ragazzi il desiderio di verità, di bellezza che alberga in noi. Perché senza significato la realtà perde il suo interesse!

D.: Uno dei più grandi educatori contemporanei, Luigi Giussani, ha scritto nel Rischio Educativo: "Educare vuol dire sviluppare la coscienza, cioè il sentimento di sé come responsabilità verso qualcosa di più grande di sé". In base alla tua esperienza di insegnante di Liceo, cosa chiedono i giovani di oggi ai propri insegnanti?
R.: Sulle scale di Portofranco, salendo abbiamo scritto questa frase di Plutarco: "I ragazzi non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere". I ragazzi desiderano essere introdotti alla realtà, ma da soli non ce la fanno. Il significato non è qualcosa di astratto ma una presenza affettiva, una presenza amorevole alla loro vita, alla nostra vita! Quid est veritas? Vir qui adest!
Ecco, io penso che la grande forza di questo mare di gratuità che è Portofranco sia questa: il gesto di gratuità che ciascuno dei ragazzi ha ricevuto lo ha introdotto alla positività dell'essere, gli ha fatto percepire che la realtà non è qualcosa di noioso, di lontano. Introduzione alla realtà: questo è Portofranco. E quando dico Portofranco penso ai volontari che hanno aiutato i ragazzi ad introdursi alla realtà attraverso una presenza amorosa, a non fuggirla cercando in devianze più o meno gravi quella realizzazione che la frustrazione scolastica impediva loro. Si perché per i ragazzi è un'ingiustizia, è una frustrazione andare male a scuola tanto che devono compensarla primeggiando in qualcosa d'altro. L'insuccesso scolastico è la prima sconfitta, è una delle prime circostanze dopo gli affetti familiari e personali in cui possono percepire la negatività, l'ottusità del reale o la sua positività. Per questo è stato così geniale partire dall'affronto del loro bisogno, del primo loro approcciarsi al reale. Infatti Il problema non è la scuola, ma la realtà.

D.: Cosa ti ha insegnato in questi anni l'esperienza di Portofranco e cosa ti aspetti per il futuro della scuola in Italia?
R.: Moltissimo. La sfida educativa è entrare in rapporto con l’altra persona, incontrarla e accoglierla per quello che è, ma senza rinnegare le proprie origini. Per esempio Portofranco è diventato un luogo ecumenico senza nessuna progettualità di volerlo diventare! Quando abbiamo iniziato non pensavamo questo.Ma già dal terzo anno sono aumentati gli stranieri che ora rappresentano più del 30% degli iscritti provenienti da oltre 30 Paesi, i più numerosi da Egitto, Marocco, Ecuador, Filippine e Perù e tra l'altro gli stranieri sono i frequentanti più assidui, quelli che, spesso per condizioni familiari particolari, vivono Portofranco come una loro seconda casa. Questo fatto mi ha insegnato molto. Si incontra l'altro non rinnegando la propria identità, il proprio volto ma in forza di essa e l'identità cattolica proprio in quanto cattolica è universale e quando è vissuta come esperienza di pienezza dell'umano e quindi apertura all'umano, è in grado di abbracciare e incontrare chiunque! Noi non nascondiamo la nostra identità, organizziamo feste di Natale e Pasqua a cui partecipano ragazzi atei o di altre religioni...
Partendo da un approccio non ideologico, ma dalla persona, attraverso il suo bisogno si può incontrare chiunque perché il cuore dell'uomo desidera la stessa cosa!! Questo l'ho proprio visto a Portofranco. Si diventa amici tra egiziani musulmani ed egiziani copti, ci si rispetta tra marocchini e latinos.. Non ci mai stato un episodio di intolleranza.Il dialogo che tra culture diverse appare così difficile, risulta possibile tra persone perché il cuore dell'uomo desidera la stessa cosa, la felicità.
Tra l'altro Portofranco non è diventato solo un luogo di integrazione tra gruppi etnici e religiosi diversi ma anche tra persone di estrazioni culturali diverse ( tra i nostri volontari adulti diversi non sono cristiani ma sposano il nostro progetto educativo) ma anche un luogo di convivenza multi generazionale (convivono 4 generazioni). Quando passando per le aule vedo lo sguardo tra un volontario di 80 anni ed un ragazzino di 16 mi chiedo: ma dove esistono i conflitti generazionali?

Per concludere penso che partendo da esperienze come quella di Portofranco si possa ripensare anche al modo di come immaginare la scuola del futuro. E’ un lavoro sfidante, ma la vera riforma della scuola deve partire da esperienze come queste o sarà solo una riforma giuridica e amministrativa, non educativa. 

Un ultimo pensiero: per tanti Portofranco è stata una casa, una famiglia e ora ha bisogno di aiuto perché i contributi pubblici coprono solo il 10% delle spese che superano € 300.000. Portofranco lancia una campagna: acquistare un’azione simbolica della Onlus chiedendo a chi ci conosce e a chi desidera, di essere parte del patrimonio dell’associazione. Vogliamo che Portofranco rimanga gratuito per i ragazzi.

Grazie Alberto.


per info: direzione@portofranco.org  / www.portofranco.org




mercoledì 24 settembre 2014

L'uomo del nostro secolo saprà trovare la felicità?

"Senza titolo" di Edward Hopper, 1942 - 43 


Qual è il filo rosso che collega l’introduzione nel “mondo” cristiano di istituzioni come il divorzio e l’aborto? Che cosa unisce le attuali tendenze che danno voce a richieste quali la dolce morte, per anziani malati, ma anche ormai per bambini piccolissimi, alla campagna a favore della possibilità di scegliersi e produrre il proprio figlio in provetta, anche da parte di coppie omosessuali?

La parola che prova a spiegare tutto ciò è la parola secolarizzazione. 

Essa è insita nel concetto di mondo cristiano appena citato, in quanto derivata della parola secolo, cioè lungo spazio di tempo e per estensione, Mondo, cosa mondana. La secolarizzazione è quindi un fenomeno collegabile al concetto stesso di cristianesimo, di religione cristiana. 

Geograficamente, il primo “mondo” cristiano in cui il processo ha avuto origine è stato l’Europa. Quello che ha contraddistinto il continente europeo non sono stati però confini geografici o politici, bensì le idee, cioè una certa concezione dell’uomo, della vita, del lavoro, della felicità che si sono sviluppate storicamente in quella parte di mondo. Pensiamo alla filosofia greca, al diritto romano e allo sviluppo che hanno avuto in Europa le due grandi religioni nate in Asia, l’ebraismo e il cristianesimo. 

Ciò che ha differenziato l’uomo europeo non è stato l’appartenenza ad una tribù, ad un gruppo etnico, ma l’uso che ha fatto delle idee, della ragione. E dall'incontro tra cristianesimo e ragione è nata quella miscela esplosiva che per secoli ha caratterizzato positivamente la vita dei popoli europei. Da quest’incontro nasceranno la cultura, l’arte, il diritto e l’economia europea. Tutto questo per più di mille anni. 

Storicamente, possiamo datare l’inizio del processo di secolarizzazione della società europea con la Riforma di Lutero. L’Europa, che ha assistito al matrimonio tra Fede e Ragione, ne è anche stata l’artefice del suo divorzio. Illuminismo e Positivismo porteranno avanti convinti la separazione sempre più marcata tra il destino dell’uomo e quello di Dio, all’inizio senza negarne l’esistenza. “Dio non c’entra con la vita dell’uomo” descrive bene la situazione il teologo Cornelio Fabro. 

E arriviamo ai nostri anni. Per quanto ci consta, la secolarizzazione è un fenomeno umano che ha avuto delle cause fondanti e sta avendo il suo sviluppo nella contemporaneità, proprio in questo nostro tempo.

Molti vedono nella secolarizzazione, e non a torto, un processo in cui l’uomo si auto fonda, non riconoscendo più il proprio legame con Dio, il bisogno del rapporto con la trascendenza. Un uomo che cerca di governare da solo il proprio destino. Tutti gli esempi posti all’inizio dell’articolo vanno in questa direzione. La tecnica raggiunta dagli scienziati sembra sostenere questo desiderio dell’uomo di non aver più bisogno di Dio per gestire la propria vita. Da questo punto di vista, proprio in questi anni stiamo assistendo all’apoteosi della secolarizzazione. L’uomo secolarizzato ha abbandonato il suo Unico riferimento per ritrovarsi a fare i conti con i suoi mille desideri e si è perso nella “selva oscura” della sua ragione. 

Ma forse c’è un altro punto di vista da cui guardare la parola secolarizzazione. Occorre partire dal rapporto che Dio Padre ha verso gli uomini. In quanto Padre, Dio non può che desiderare la pienezza di vita e di libertà dell’uomo, come ogni padre umano desidera ciò per il proprio figlio. La storia dell’umanità, della secolarizzazione può allora essere vista come la crescita dell’umano, della sua consapevolezza, della sua libertà di scelta di stare o non stare in rapporto con Dio Padre. 

Ecco che allora, da questo punto di vista, la parola secolarizzazione diventa il tentativo dell’uomo “adolescente” di staccarsi da Dio Padre per vedere se le sue forze sono sufficienti per camminare e governare da solo il Mondo. Ma ce la farà quest’uomo, in balia della sua ragione, a giungere alla meta tanto desiderata, la felicità?

Da come l’Europa, il “mondo” ormai non più cristiano sembrano essersi organizzati negli ultimi decenni, sorgono molti dubbi…

 

sabato 20 settembre 2014

Il Jobs Act renziano



E’ un classico. Finite le ferie estive, quest’anno per la verità più brevi del solito un po’ per tutti, la situazione politica in Italia torna a surriscaldarsi. I temi del giorno sono la riforma del lavoro e l’eliminazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge num. 300 del 20 maggio 1970). 

Ormai il governo Renzi non ha più scusanti e i mille giorni che si è dato per portare a termine le riforme scorrono uno dopo l’altro inesorabili. E’ quindi costretto per forza ad affrontare anche i temi più delicati che sino ad ora ha lasciato decantare. Uno dei più spinosi per la sua stessa maggioranza interna (parliamo del PD) è la riforma del mercato del lavoro. Su questo tema esistono due PD, forse anche tre. Ma Renzi sa benissimo che non può fare a meno di portare avanti questa riforma, perché la situazione italiana è tragica e l’Europa ci chiede a gran voce di cambiare marcia. 

Il problema è come cambiare, dopo che la riforma Fornero ha, sembra impossibile, peggiorato ancora di più il quadro legislativo e la crisi economica negli ultimi due anni ha colpito duro soprattutto la fascia d’età giovanile e i cinquantenni rimasti senza lavoro e senza pensione. Una situazione potenzialmente devastante dal punto di vista della tenuta sociale del sistema.

L’idea di Renzi sull’argomento è nota dai tempi della Leopolda e trova sponda nei partiti di centro destra dentro e fuori il governo (NCD e Forza Italia più satelliti), ma è all’antitesi di quella di metà PD e degli altri partiti di sinistra.

Al momento una mediazione sembra impossibile e forse neanche auspicabile perché provocherebbe l’ennesima riforma fatta a metà che non risolverebbe il problema.

Noi ci permettiamo di mettere sul tavolo due o tre considerazioni.

Primo: l’articolo 18. Senza entrare in tecnicismi, ricordiamo che il licenziamento comminato da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo. In tali casi si parla di illegittimità del licenziamento e può essere applicato il famoso articolo se l’impresa ha più di 15 dipendenti. 

Renzi e il suo governo, con il Jobs Act, sembrano convinti che eliminando questo articolo, il mercato del lavoro in Italia sarà meno ingessato e potrà riprendere a crescere. A parte che l’articolo 18 è già stato fortemente limitato nella sua applicabilità dalla riforma Fornero, non sembra che ciò abbia portato ad un aumento di occupati. E poi l’articolo 18, dalla sua nascita nel 1970, ha trovato applicazione per la metà circa dei lavoratori, visto che l’Italia è il Paese delle piccole e piccolissime imprese, sotto i 15 dipendenti, e pertanto escluse dall’applicazione dell’articolo. Nonostante ciò, l’occupazione in Italia dal 1970 al 1990 è cresciuta e il nostro Paese è diventato tra le 8 nazioni più sviluppate al mondo, con l’articolo 18 in vigore, non senza l’articolo 18.

Non ho mai letto o conosciuto un imprenditore italiano o straniero, che si lamentasse dell’esistenza dell’articolo 18 e che decidesse di non investire in Italia per questo motivo. 

Riteniamo invece che l’idea di fondo espressa nell’articolo sia un’idea di civiltà giuridica che pochi Paesi al mondo hanno sviluppato e non a caso essa è presente nell’ordinamento giuridico dell’Italia, patria e culla del diritto romano che ha civilizzato l’intera Europa duemila anni fa.

Secondo: i mali dell’Italia invece sono ben altri e Renzi li conosce bene e dovrebbe affrontarli: la giustizia civile lenta a livelli inverosimili che ci pone agli stessi livelli dei Paesi dell’Africa nera. La burocrazia esagerata che obbliga gli imprenditori a sostenere costi assurdi. Per aprire un’unità produttiva in Italia ci possono volere sino a sei anni contro i dodici mesi del resto d’Europa. La corruzione che si annida nelle lungaggini burocratiche in Italia è praticamente endemica. Il costo dell’energia è più alto di tutti gli altri nostri competitors europei. E si potrebbe continuare (non abbiamo citato per esempio il tema fiscale), ma si capisce bene che già così è quasi un miracolo che esistano ancora imprenditori che hanno la voglia e il desiderio di investire in Italia.

I sindacati, chiamati inevitabilmente in causa quando si attacca l’articolo 18, sicuramente in passato hanno commesso errori, non capendo che il mercato del lavoro stava cambiando, ma è indubbio che non hanno scritto e promulgato le leggi che nel corso degli anni hanno portato alla situazione attuale. 

Renzi sbaglia quando li accusa di non tutelare le partite IVA e i lavoratori temporanei e tutte le altre forme di precariato. Il sindacato queste forme di lavoro “anomalo” non le vuole, non le voleva e le ha subite. I veri colpevoli di questa situazione sono i partiti politici che, in piena crisi di valori, dagli anni 90 in avanti si sono piegati ai nuovi poteri forti rappresentati dai grandi gruppi industriali e dalla finanza internazionale che sempre più globalizzati hanno iniziato a chiedere alla politica una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, foriera a sua volta di una riduzione di costi e quindi di un maggior guadagno per loro stessi. 

Cosa ci aspetta? Personalmente riteniamo che oggi abbiamo davanti a noi un’opportunità incredibile: ripensare alla concezione del lavoro umano e a quello che esso significa per la vita di ciascuno di noi, lasciando per un attimo da parte i diritti e i doveri, ma riflettendo sul significato della parola lavoro.

“L'UOMO, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all'incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l'uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell'universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura.” 

Così inizia l’Enciclica LABOREM EXERCENS scritta nel 1981 da Giovanni Paolo II. 

Iniziamo a riflettere su queste parole e magari domani al governo Renzi potremmo inviare un tweet con qualche suggerimento per il Jobs Act.

martedì 2 settembre 2014

Dragon Trainer 2

Dragon Trainer 2, USA, 2014, Regia di Dean DeBlois


I personaggi di Dragon Trainer 2

Recensione di Alberto Bordin


Uno degli elementi più interessanti nella lettura dei manga giapponesi avviene durante lo stacco tra un capitolo e l’altro. È uso comune quello di aprire ogni nuovo episodio con una pagina singola, solitamente facente da copertina, con rappresentati gli eroi o antieroi, magari alle prese con gli eventi che saranno a seguito narrati; ma capita anche spesso, soprattutto in alcune serie più recenti – vedi OnePiece, Bleach o Naruto per citarne alcuni –, che all’interno di tali inserti si vedano i vari personaggi alle prese con eventi assolutamente estranei al contesto narrato. Si tratta principalmente di scene di quotidiano, momenti di convivialità immortalati come in scatti fotografici, scene che vedono i nostri personaggi più cari mangiare insieme, andare al mare, giocare, passeggiare, magari anche litigare, in un clima estremamente nostalgico e di ricordo. In tali sequenze essenzialmente vige la legge del “ma se accadesse che … ?”; i suddetti personaggi sono così calati all’interno di situazioni uniche, possono vestire diversamente dai loro soliti costumi o essere sbeffeggiati per il loro look usuale, alle volte sono pure catturati in compagnia di detti villain per assurdo in un clima pacifico che mai vedremo nelle nostre avventure. È proprio questo “non vederlo mai” a generare la profonda nostalgia per un mondo che improvvisamente sembra spandersi più grande di quanto potremo mai conoscerlo: sono le storie mai raccontate di quel mondo; possiamo sbirciarci dentro, ma null’altro: la loro rimarrà una memoria segreta, e quanto resterà a noi sarà soltanto l’istantanea di un ricordo mai vissuto.
La prima caratteristica che salta all’occhio vedendo Dragon Trainer 2, è proprio questo senso di “espansione” narrativo dal colore tutto nipponico.

Già il suo predecessore doveva molto alla cultura del sol levante, innanzitutto nelle fattezze del suo protagonista alato, disegnato sulla falsa riga dello stile miyazakiano. Ma aperto il file di un mondo coabitato da draghi e uomini, è evidente che il team Dreamworks abbia puntato molto sull’indagare questo nuovo mondo, ampliarlo, testarlo, nei colori, nei contesti e nei dinamismi possibili, improbabili, immaginabili. Solcare il mare assieme a draghi-balena, planare tra le nubi al fianco – invece che sul dorso – di Sdentato, e poi di nuovo scoprire nuove terre e cieli inesplorati e andare più a fondo ancora di un rapporto uomo animale che non smette di lasciare sorprese e strappare sorrisi. Non di meno questa nota curiosa e arguta diventa uno stile narrativo, per cui se nel centro della scena si svolge il filo principale del racconto, il nostro occhio va a un angolo dello schermo, dove quel mondo continua a muoversi indisturbato nella propria quotidianità ma a noi per nulla quotidiana, con draghi che giocano tra di loro, vichinghi che si spazzolano i baffi, ingegneri che costruiscono spade di fiamme e cavalieri che danzano sulle ali dei loro destrieri alati. Abbastanza materiale da riempirci un libro, più che sufficiente da far risplendere un film.

Ma benché ciò basti a fare un buon film non basta a renderlo ottimo; per quello serve una grande storia ben scritta e in questo, il nuovo capitolo Dreamworks funziona solo in parte.

È evidente che il film risenta molto del confronto con il primo titolo: quando uscì nel 2010, Dragon Trainer lasciò molti – tra cui il sottoscritto – felicemente meravigliati, perché alla luce degli insuperati successi Pixar ci promise che anche la concorrenza poteva fare cartoni altrettanto belli e grandiosi. Così quando fu annunciato Dragon Trainer 2 l’aspettativa era altissima, arrampicatasi con le unghie sulle vette dell'inverosimile, e non per questo meno desiderabile: era l’attesa di un degno sequel. E Dragon Trainer 2 è un buon film, ma non può rispondere a simili attese.

Difettando alla radice con una sceneggiatura pericolante, la nuova avventura di Hiccup non è scritta male, ma vola sul filo del rasoio, alle volte radendo con inaspettata grazia, altre graffiando grossolanamente la cute. Le premesse sono ottime, estremamente verosimili, soprattutto in virtù di un mondo espanso non solo qualitativamente e spazialmente ma soprattutto temporalmente, perché i nostri eroi sono cresciuti; c’è tutto il materiale che serve per dire “voglio raccontare una nuova storia”. Però è già con l’entrata di uno dei nuovi personaggi cardini della vicenda – spudoratamente annunciato fin nel trailer – che la struttura comincia subito a traballare. L’assenza per 20 anni della madre di Hiccup non lascia alcuna spiegazione soddisfacente, né logica né emotiva. Il personaggio è splendido, nell’aspetto, nelle movenze, nel carattere e nel ruolo che copre, ma sarà quella stessa donna a trovarsi balbettante con le spalle a una parete di ghiaccio quando tenterà di giustificare la propria assenza al marito, basito di vederla ancora viva; eppure è anche qui che il barbiere serve una delle sue mosse migliori, nascondendo le sbavature del plot dietro gli occhi di un uomo teneramente innamorato come la prima volta, che prendendole il volto tremante tra le mani potrà sorprendentemente lenire ogni ferita e rimpianto sussurrandole “sei bella come il giorno in cui ti ho perduta”. Ma se Stoic ci sorprende, Hiccup invece non ci smuove di un passo, quasi impassibile al ritorno della madre e fin troppo poco partecipe dei tragici eventi che seguiranno, poco preparati, spesso mal serviti e quindi difficilmente assimilati dal pubblico.

Lo stesso vale per il confronto con l’antagonista Drago Bludvist, un personaggio di inaspettati dignità e carisma, soprattutto nella contrapposizione che porta tra fiducia e sottomissione dell’animale all’uomo, addomesticarlo e piegarlo, due dinamiche sorprendentemente simili eppure tanto distanti. I dialoghi più di una volta rischiano di cadere nella retorica e quasi sempre si salvano, in un’insperata naturalezza, o in una dialogica più convincente del previsto; ma infine vince il luogo comune e la metafora toccando purtroppo l’ideologia, per quanto possa dichiararsi “buona”.

A una gioia che è tutta pittorica e per gli occhi non segue un altrettanto geniale racconto da falò.

Possiamo solo sperare che in una storia sempre viva e calda, rincuorata anche da un sorprendente successo economico, ci possa essere spazio per un terzo capitolo e l’occasione per un taglio di prim’ordine come è stato al nostro primo appuntamento e come questo secondo poteva essere, ma – nostalgicamente più che tristemente – non è stato.

domenica 31 agosto 2014

Il Meeting delle periferie

La festa finale di venerdì sera 29 agosto 


Si è chiusa ieri a Rimini la 35° edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli. Il titolo del Meeting di quest’anno era: “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo”.

Per chi ha potuto verificare di persona, pure solo per una giornata, l’esperienza del Meeting, anche quest’anno si sarà commosso nel vedere decine di migliaia di persone, soprattutto giovani e giovanissimi ragazzi, partecipare attenti e curiosi a quanto accadeva nei saloni della fiera riminese. 

Per prima cosa diamo l’idea di quello che è accaduto nella settimana del Meeting: 100 convegni con 280 relatori provenienti da tutti i continenti, 14 mostre, 17 spettacoli, 10 eventi sportivi e oltre 4.000 volontari provenienti da 43 Paesi del mondo che hanno reso possibile tutto questo.

Forse il Meeting di quest’anno è stato, dal punto di vista mediatico, un po’ sotto tono per la mancanza di ospiti politici italiani di primo piano, ma invece dal punto di vista culturale e religioso sarà ricordato sicuramente come un’edizione che lascerà un segno negli anni a venire.

Le “periferie” non sono lontane – ha scritto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio che ha mandato per l’inizio del Meeting - fanno anzi parte del nostro mondo e del nostro vissuto e le tragedie che si verificano quotidianamente in molte parti del pianeta ci riguardano da vicino».

«Il cristiano non ha paura di decentrarsi, di andare verso le periferie, perché ha il suo centro in Gesù Cristo», ha scritto invece papa Francesco nel messaggio augurale al Meeting. Le periferie, ricorda il Santo Padre, «non sono soltanto luoghi, ma anche e soprattutto persone (...). Non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria». 

Le periferie del mondo sono state raccontate attraverso grandi testimoni come Padre Pizzaballa, Custode di Terrasanta, Aleksandr Filonenko, professore Ucraino, il vescovo di Aleppo, Georges Abou Khazen e ancora Panteleimon, Vicario di Sua Santità il Patriarca di Mosca e dell’intera Russia, Shlemon Warduni, Vescovo Ausiliare Caldeo in Iraq, ma anche da personalità italiane come il Card. Gualtiero Bassetti, Padre Antonio Spadaro, il Presidente Luciano Violante, il Prof. Giorgio Buccellati.

Tra tutti gli incontri a cui abbiamo assistito, sicuramente uno dei più emozionanti è stato quello con il fisico, filosofo e teologo ortodosso Filonenko che ha trattato la sua relazione avente a tema il titolo del Meeting. “La periferia non è una questione geografica, è questione di un incontro che ci rende vivi", così ha esordito Filonenko. Che poi ha continuato: "La periferia è quel luogo in cui Gesù ci si fa incontro, affinché dalla stanza soffocante dell’abbandono e della solitudine possiamo uscire nell’universalità, nella cattolicità. La periferia è più simile alla riva dell’oceano, all’apertura che rende possibile il contatto con il mistero”. 

Del resto anche il Salvatore dell’uomo, per venire al mondo, ha scelto una terra di periferia rispetto al centro del mondo che allora era Roma, e non sarà stata certamente una casualità.

Aspettiamo a questo punto in trepida attesa il prossimo Meeting 2015 che avrà il titolo: Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?

martedì 12 agosto 2014

Arrivederci Robin...



Quando leggiamo notizie come quella letta questa mattina al risveglio, la morte, o meglio il suicidio dell'attore Robin Williams, rimaniamo per forza di cose senza parole, afoni, sgomenti.

Robin Williams ci ha fatto compagnia per tantissimi anni, al cinema, in televisione. Quando avevamo voglia di rivedere il suo volto così sorridente e al tempo stesso velato da un filo di malinconia, accendevamo la TV o inserivamo un DVD, con la consapevolezza che da qualche parte nel mondo Robin stava girando per noi un nuovo film che ci avrebbe fatto ridere e commuovere, insomma ci avrebbe aiutato a vivere.

Ora il suo futuro si è fermato, lui stesso l'ha fermato, per sempre. Certo, potremo rivederlo ancora, tutte le volte che vorremo, in TV o al cinema, ma sarà diverso perché ci mancherà l'attesa per la sua nuova interpretazione della realtà, sempre magica, sempre unica.

Molti si stanno chiedendo in queste ore il perché del gesto. Nessuno, tranne Robin, conosce la risposta. Si potrebbe parlare e scrivere per ore sul mondo dello spettacolo, sulla vanità che lo circonda, sulla falsità dei rapporti umani che lo costituiscono, sulla solitudine compagna di vita e via dicendo...

La verità è che ognuno di noi, prima o poi, deve fare i conti con lo scorrere del tempo e con il senso del proprio esistere. Si viene al mondo con due compiti: imparare ad amare e prepararsi a morire e questo fatto costituisce il filo rosso dell'esistenza di ciascuno di noi, sia che nella vita si svolga il mestiere di attore o quello di semplice impiegato od operaio.

Robin Williams, di fronte a questi due compiti, ha pensato di dare una risposta radicale e senza possibilità di ripensamento, togliendosi la vita. Purtroppo non possiamo dirgli più nulla. Ma se solo potesse sentirci ancora una volta, gli diremmo che in questo caso ha sbagliato copione, che non doveva recitare sino in fondo quella parte. Dopo tutti gli anni passati sullo schermo e tutti i film interpretati, questa volta caro Robin hai scelto una sceneggiatura sbagliata. 

C'è sempre una ragione per cambiare strada e iniziare un nuovo cammino, a qualsiasi età, con qualsiasi tempo...Le scelte radicali, quelle che non contemplano una possibilità di ripensamento, non sono scelte di competenza di noi fragili umani, ma delle divinità. E tu caro Robin, eri uno come noi, un essere umano, perché hai voluto compiere un gesto divino? Solo Dio può decidere la nascita e la fine di una vita.

Questo ti avrei detto, caro Robin, se solo avessi potuto parlarti prima che tu compissi l'insano gesto. Ma sono sicuro che ti sei già pentito per quanto hai combinato poche ore fa e saprai farti perdonare dal buon Dio, del resto tra veri artisti ci si intende…

Addio Robin. Grazie alla tua arte ci hai fatto vivere momenti emozionanti che rimarranno nella nostra mente e nel nostro cuore finché vivremo. E ci impegneremo per farlo bene, nel migliore dei modi, cercando di imparare ad amare e preparandoci, con animo sereno -sperando di riuscirci- alla nostra fine.

E se vi riusciremo, sarà un po’ anche merito tuo.

martedì 5 agosto 2014

Edge of Tomorrow

Edge of Tomorrow, USA e Australia, 2014, Regia di Doug Liman

Recensione di Alberto Bordin


Mentre gli alieni conquistano l’Europa sgomentando le nostre forze armate a ogni nuovo attacco, il pavido ufficiale William Cage (Tom Cruise) viene strappato dalla sua campagna pubblicitaria per i nuovi e letali esoscheletri da battaglia destinati a cambiare le sorti della guerra, e, ridotto a soldato semplice per aver rifiutato di eseguire l’ordine affidatogli, è gettato controvoglia in prima linea durante un attacco “a sorpresa”, dentro uno di quegli stessi automi che ha finora venduto ma che non ha la più pallida idea di come utilizzare. Nella rovinosa disfatta, l’ufficiale Cage trova presto la morte incidentandosi con un alieno diverso dagli tutti gli altri, circostanza per la quale Cage sarà vittima del più inusuale degli eventi: morendo, il giorno ricomincerà ogni volta da capo, uguale al precedente, tranne per lui, che l’ha già vissuto; e così si ripeterà ogni volta, ogni giorno morendo, ogni giorno ricominciando. Sotto pressione della soldatessa Rita Vrataski (Emily Blunt), l’unica che gli crederà essendo stata vittima dello stesso sortilegio, Cage approfitterà del suo potere per cambiare definitivamente le sorti della guerra.

Edge of Tomorrow è un film ben scritto prima che ben realizzato e questo è sempre un colpo vincente per qualunque film; meglio, per qualunque storia. Lo sviluppo narrativo è intelligente e ironico. Svolge con semplicità ed economia la matassa del racconto, facendoci entrare in modo fluido nel vivo degli eventi; un plauso in particolare ai primi due minuti del film che riescono con parsimonia a inquadrare e focalizzare con precisione la vicenda bellica. Ma non di meno è notevole il funzionamento del meccanismo temporale: liscio, chiaro, “naturale”, districandosi sullo schermo senza ingarbugliarsi – impedendo la comprensione – né appiattirsi – annoiando alla visione. La linea narrativa, evidentemente colorata di fantascienza, segue ordinatamente, al ritmo di piani e picchi – come una frequenza cardiaca sull’elettrocardiografo – ed è in tutto ciò condita di vivace ironia. Perché quando la Morte non è più un ostacolo, se il titano più spaventoso e invitto, la nemesi di tutti gli uomini, viene non solo sconfitto ma sorpassato, scavallato come un semplice incidente di percorso: nient’altro, non c’è né ci sarà mai altro pericolo o “incidente” in grado di spaventarci. Cage morirà una, dieci, cento, mille volte – nemmeno lui terrà più il conto – nei modi più diversi e improbabili; e ciascuno di questi – sdrammatizzati ma altrimenti drammaticissimi – eventi, correranno impunemente sullo schermo, sotto le scrollate di spalle del protagonista e le frequenti risate del pubblico. L’assoluta reversibilità degli eventi minimizza fino al ridicolo ogni sofferenza del corpo.

Ma non quelle del cuore; e qui si annida la vera drammaticità e punta di genio del film. Perché se il corpo non ricorda il male subito, la mente lo fa, e sarà occupata prima dalla spossatezza, poi dalla noia e infine dal dolore della coscienza. Gli occhi di Rita, ogni giorno nuovi e ignari, non si accorgono del peso che si nasconde negli occhi di Bill, occhi vecchi e stanchi, occhi provati dal tempo che accresce ogni emozione e quella più sofferta di tutte: l’affetto. Bill s’innamorerà inevitabilmente di una donna con la quale vive una storia in solitario, amante non amato, memore e dimenticato. È un po’ il destino di Henry in “50 Volte il primo bacio”, ma certo è il medesimo di Phil in “Ricomincio da Capo” – non è certo un caso che entrambe le amate si chiamino Rita –: tre storie in cui, comunque si voglia, il destino vuole che l’amore di questi tre uomini rimanga in qualche modo sterile, ogni volta donato ma senza frutto, senza poter mettere radici, sempre dimenticato da tutti. Fuorché da loro.

E qui l’ultimo punto di genio umano, in un finale che forse perde nel soddisfare la logica ma vince affettivamente. Il tempo non è mai perso, nemmeno il tempo perduto. È sempre donato, ogni volta occasione di maturazione, di fare di quella coscienza sofferta la sostanza di un uomo nuovo. Non è passato nemmeno un giorno per il mondo eppure è passata un’eternità: il tempo necessario per un ufficiale codardo di meritare finalmente i propri gradi e divenire l’uomo che non è mai stato.

venerdì 1 agosto 2014

Onorevole Presidente del Consiglio Matteo Renzi...


Onorevole Presidente del Consiglio Matteo Renzi, 

sono uno degli undici milioni e duecentomila italiani che l’hanno votata alle ultime elezioni europee. Io, come molti altri, per la prima volta (ho quarantotto anni). Non ho votato il PD, ho votato lei, Signor Primo Ministro. 

Ho votato lei perché è giovane e Dio solo sa quanto gli italiani siano stanchi di settantenni e ottantenni al comando, incollati ai posti chiave della Nazione…

Ho votato lei perché ho intravisto un segnale di discontinuità propositiva, nel suo modo di parlare di politica, di futuro, di fiducia nelle nostre capacità e nel nostro lavoro, rispetto ai mestieranti della politica…

Ho votato lei perché ha promesso di cambiare l’Italia in meglio, di lottare contro i burocrati e la burocrazia…

Ho votato lei, Signor Presidente, perché non si è messo ad urlare nelle piazze come hanno fatto alcuni politici improvvisati, mirando a distruggere piuttosto che a costruire una nuova Italia…

Ho votato lei perché ha l’energia giusta per andare sino in fondo in questa sfida di cambiare il Paese incartapecorito da decenni di pseudo vita democratica e perché, mi consenta la franchezza, non ha molto da perdere e quindi ha con sé la forza per tirare dritto davanti agli ostacoli…

Ho votato lei perché l’Italia ha bisogno di un cambio di passo e un giovane di solito ha la camminata svelta…

Ho votato lei perché mi è sembrata una persona coraggiosa, perché ci è voluto molto coraggio per sfidare i Moloch del Partito Democratico ed uscirne vincitore…

Ho votato lei, Signor Presidente, perché avevo bisogno di vedere facce nuove nei talk show, non i volti noti dei soliti politici che siedono in Parlamento da decenni e vengono in TV a parlare del rinnovamento della politica, ma loro sono sempre seduti nel solito scranno…

Ho votato lei anche perché, purtroppo, non avevo molte alternative Signor Presidente, ma di questo lei non si deve preoccupare, anzi, deve essere un motivo in più per cercare di conquistare altro consenso…

Intendiamoci, non vorrei che pensasse che la considero un super uomo, no per carità, qui sulla terra siamo tutti persone normali, i santi e i demoni vivono nell’altro mondo, Superman è un personaggio dei fumetti…

Ho votato lei ed ho aspettato il trascorrere dei fatidici cento giorni che si concedono ad ogni nuovo Primo Ministro, giusto per permettergli di capire in che mondo è finito… 

però caro Presidente, così non va…

Dal giorno del giuramento (si ricorda quel 22 febbraio vero?) sono trascorsi più di cinque mesi e dal suo Governo abbiamo avuto molte dichiarazioni d’intenti e visto molti grafici sui programmi e sulle cose che intende fare per cambiare il Paese, ma pochi atti concreti…

Dal giorno del giuramento, abbiamo letto sui giornali le moltissime riforme che si vogliono realizzare: la riforma della spesa pubblica, la riforma del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione, la riforma della legge anti corruzione, la riforma della legge elettorale, del titolo quinto, quella costituzionale solo per citare le più importanti. 

Se però guardiamo agli atti concreti, leggi e decreti promulgati ed operativi, le cose cambiano. Al momento poi il Parlamento è impegnato in una estenuante discussione sulla riforma del Senato, come se riformare il Senato a tutti i costi fosse la soluzione ai mali d’Italia.

Così non va, Signor Presidente. Le riforme costituzionali devono avere la più ampia maggioranza parlamentare se vogliono avere una minima possibilità di successo. L’esperienza docet in questo caso. Quante volte negli ultimi due decenni si è cercato di portare avanti una riforma sostanziale della nostra Costituzione senza riuscirci? Non si può proporre al Parlamento un piatto surgelato da scongelare e cucinare in cinque minuti, preparato e precotto in un’altra cucina…

Perché per esempio puntare i piedi sull’elezione indiretta dei Senatori quando tutti i sondaggi e il buon senso dicono che agli italiani piace, giustamente, scegliere il proprio candidato? Non raccontiamoci la storiella che un Senato elettivo costerebbe di più di uno di seconda mano…basterebbe dimezzare il numero dei Senatori, da 315 a 150, e ridurre gli stipendi ai restanti, per ottenere i medesimi risultati di costo della struttura. E questo è solo uno tra i molti punti della riforma in discussione che sono fortemente invisi al popolo, Signor Presidente…

I motivi per cui l’ho votata, Signor Presidente, glieli ho elencati all’inizio di questa lettera. Come me, mi creda, la pensano tanti italiani. Ci ascolti, la prego. Per noi lei rappresenta l’ultima possibilità, l’ultimo tentativo serio per cercare di cambiare le cose in Italia. 

Non usi i muscoli per portare a casa una vittoria sul Senato non elettivo, mi creda, non ne vale la pena… 

Cerchi anzi di uscire il più in fretta possibile dalla pastoia della riforma costituzionale e di quella elettorale per dedicare le sue energie e quelle dei suoi giovani ministri nel cercare soluzioni al lavoro che manca, alle imprese che chiudono (alcune perché falliscono e altre perché spostano la produzione all’estero) e vedrà che alle prossime elezioni gli italiani la voteranno ancora…

Ci sono solo due giorni all'anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama ieri, l'altro si chiama domani, perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere. 

Questo scrive il Dalai Lama, Signor Presidente: oggi tocca a lei decidere il futuro dell’Italia. Non si faccia intimidire dai vecchi volponi della politica, ascolti il popolo e vada avanti senza indugio. Gli italiani che l’hanno votata sono ancora con lei, ma non per molto tempo ancora…

In bocca al lupo, se mi consente.



giovedì 31 luglio 2014

L'ombelico del mondo




E' sempre impegnativo raccontare la politica estera di una nazione. Quando poi il Paese di cui vogliamo parlare sono gli Stati Uniti d’America, l’analisi si complica ancora di più. Proviamo comunque ad esporre alcune riflessioni.

La politica estera degli Stati Uniti, prima potenza militare mondiale, sotto la presidenza Obama, è mutata. Si è abbandonato l'interventismo militare diretto, proprio delle presidenze di Reagan prima e poi di Bush padre e Bush figlio e di Clinton per teorizzare un mondo che finalmente potesse fare a meno dell'intervento militare americano per auto governarsi pacificamente.

Il risultato? E’ un bene questo ritorno americano all’analisi del proprio ombelico? Guardiamoci intorno.

Le tanto osannate primavere arabe che dovevano segnare l’avvio di un nuovo rinascimento dei popoli arabi hanno visto, con l'appoggio "esterno" degli USA, la caduta dei vecchi "dittatori" e la contemporanea rinascita di guerre tribali tra opposte fazioni etniche religiose, armate per abbattere il vecchio potere ed ora intente a sopraffarsi le une sulle altre.

Nei Paesi devastati da decenni di guerra, Iraq e Afghanistan, la situazione se vogliamo è ancora più tragica. Dopo la deposizione di Saddam Hussein, l'Iraq è stato formalmente normalizzato dall'intervento delle forze di pace, guidate dagli USA. Peccato che ancora oggi, ogni settimana a Baghdad esplodano autobombe che provocano decine di morti e le diverse componenti etnico religiose presenti, sunniti, sciiti e curdi sono in continua lotta tra di loro per la gestione del potere e non si sia riusciti ancora a contribuire alla formazione di un Governo di unità nazionale che affronti la ricostruzione del Paese. Inoltre, è cosa delle ultime settimane, i movimenti ultra estremisti islamici dell'Isis, attivi in Siria contro il regime di Assad, hanno conquistato parte dell'Iraq settentrionale e della Siria, proclamando la rinascita del Califfato islamico abolito nel 1924 nell'ambito delle riforme promosse dal leader turco Mustafa Kemal.

In Afghanistan la situazione è altrettanto grave. Dopo l'invasione sovietica della fine degli anni 70, durata dieci anni e terminata nel 1989 con la vittoria dei Mujaheddin sostenuti dagli Stati Uniti, il Paese è precipitato in una guerra civile religiosa che nel 1996 ha visto prevalere la fazione dei Talebani. Costoro applicarono al Paese una versione estrema della shari'a e ogni deviazione dalla loro legge venne punita con estrema ferocia. Molti ricorderanno la cattura dell'ultimo presidente della repubblica democratica afgana Mohammad Najibullah; venne preso dal palazzo delle Nazioni Unite di Kabul, dove era rifugiato, e venne torturato, mutilato e trascinato per le strade con una jeep prima di essere giustiziato con un colpo alla testa. Altro episodio che ha fatto clamore è stata la distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 gli Stati Uniti e le forze della coalizione da loro guidata invasero l'Afghanistan e sconfissero i talebani nel novembre dello stesso anno. Dopo 13 anni di controllo politico militare dell'Afghanistan la situazione interna è tutt'altro che risolta e vaste zone di territorio sono sotto lo stretto controllo dei fanatici religiosi talebani. Ora, con la situazione sopra descritta, Obama già nel corso di quest’anno e poi nel 2015 ritirerà le sue truppe dal Paese e nel 2016 dovrebbero restare solamente 1000 uomini dell'esercito statunitense in appoggio alle forze regolari afghane. Cosa succederà nel Paese asiatico dopo la ritirata dei militari della coalizione è facile immaginarlo, visto quello che è successo in Iraq dopo il ritiro dell’esercito USA nel 2011.

E’ evidente a tutti ormai che fu un errore invadere quindici anni fa questi due Paesi come è stato un errore abbandonare l’Iraq al suo destino (e domani abbandonare l’Afghanistan) senza averlo dotato di una robusta struttura democratica che fosse in grado di governare pacificamente la nazione. La democrazia non si impone con la forza militare, semmai la si esporta negli anni attraverso gli scambi culturali tra persone di fede ed educazione diverse che si conoscono, si stimano e imparano reciprocamente il modo migliore di vivere sulla terra.

E veniamo all’ultimo errore che, a nostro giudizio, stanno commettendo gli USA nell’approccio alla crisi dell’Ucraina. Non è con le sanzioni commerciali e con la minaccia di ritorsioni che si deve trattare con la Russia di Putin su come risolvere la crisi in atto che, ricordiamolo, coinvolge pesantemente gli interessi dell’Unione europea.

Che i territori dell’est del Paese siano storicamente più legati alla nazione russa a differenza di quelli dell’ovest, più europeizzati, è cosa nota. Basterebbe prendere un manuale e leggere la storia dell’Europa centrale degli ultimi mille anni. Ora non si capisce perché non si possa dare la parola al popolo ucraino e indire un referendum per decidere liberamente da quale Governo vuole essere amministrato? Dopodiché se le province dell’est vogliono essere governate dalla Russia di Putin, si troverà il modo di ricompensare l’Ucraina per la perdita di quei territori e a questo punto la situazione tornerà assolutamente pacifica. Fanta politica? Non ci sembra. Certo che se l’Europa continuerà a brillare per la sua assenza dagli scenari internazionali e lascerà agli Stati Uniti gestire, in casa propria, questo tipo di situazioni, non prevediamo un finale entusiasmante per la crisi ucraina.

Non dimentichiamo poi che se si prosegue sulla scia delle ritorsioni e contro ritorsioni, il tempo che passa gioca a favore di Putin. Con l’arrivo dell’inverno il Capo del Cremlino avrà in mano un’arma di ricatto potentissima: bloccare il flusso di gas verso l’Europa. Ora con la situazione poco tranquilla (per usare un eufemismo) in Libia e con la Russia che chiude i rubinetti del gas, come passerà la nostra cara Italia il prossimo inverno? Certo, i francesi, gli inglesi, i tedeschi hanno le centrali nucleari, noi però quelle che stavamo costruendo le abbiamo bloccate ed ora sono ferme in attesa di essere smontate, come la Concordia che aspetta a Genova di essere fatta a pezzi. Certo, gli Stati Uniti sono lontani migliaia di miglia dall’Ucraina e poi sono diventati da poco auto sufficienti dal punto di vista energetico. Una bella cosa, per loro. Noi italiani invece, per scaldarci, dipendiamo dai Paesi arabi e dalla Russia…quindi potremmo affermare che il nostro prossimo futuro lo prevediamo molto caldo…

Riuscirà l’Europa in questo caso a suonare una musica differente da quella proposta dagli USA e ad evitare di esasperare sempre di più una situazione già al limite? Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane vedremo se il premier Renzi e il ministro Mogherini sapranno rappresentare agli alleati una via d’uscita dalla crisi ucraina diversa da quella che si sta intravedendo, decisa e condotta dagli Stati Uniti.

mercoledì 30 luglio 2014

Imprenditori italiani...

Carlo De Benedetti


La notizia è apparsa sulle pagine dei quotidiani senza lasciare strascichi o commenti particolari, forse perché in questo caso in ballo ci sono denari privati (siamo sicuri che sia proprio così?), ma iniziamo dalla notizia.

Il 23 luglio scorso i soci di Sorgenia spa (la CIR dell’imprenditore De Benedetti con il 53% e l’austriaca Verbund AG con il 46%) hanno sottoscritto un accordo con le banche creditrici per la ristrutturazione del debito della stessa. Il risultato finale di questo accordo (previsto entro la fine dell’anno in corso) sarà il passaggio del controllo di Sorgenia dai due soci attuali alle banche creditrici.

Ma facciamo un passo indietro. Sorgenia nasce nel 1999 all’indomani della liberalizzazione del mercato dell’energia in Italia ad opera del gruppo De Benedetti alleato, in questa impresa, con gli austriaci di Verbund AG (operatore austriaco attivo anch’esso nel mercato energetico).

Sorgenia cresce velocemente e nel 2003 acquista da Enel una quota del 39% di Tirreno Power che le permette di fare un importante salto dimensionale. Nel 2013, secondo quanto pubblicato sul sito internet istituzionale della controllante CIR, il gruppo Sorgenia ha generato ricavi per 2,3 miliardi di euro, diventando il secondo fornitore elettrico delle aziende italiane, dietro Enel. 

Una storia di successo quindi? Non proprio. L’altra faccia della medaglia della crescita dei ricavi è il pesantissimo debito accumulato con le banche finanziatrici: 1,8 miliardi di euro. Dopo quindici anni di vita, Sorgenia è arrivata al capolinea e per sostenere gli investimenti e le quote di mercato acquisite nel tempo a suon di debito, i due soci fondatori cosa hanno pensato di fare? Passare il testimone alle banche che con i loro generosi finanziamenti evidentemente hanno creduto nell’iniziativa molto più dei soci industriali. 

A questo punto la storia di Sorgenia diventa molto simile a quella di altre vicende che hanno interessato l’imprenditoria italiana. Purtroppo in Italia esiste ancora una classe di pseudo imprenditori che investono in settori ritenuti “promettenti” facendo ricorso ai finanziamenti bancari e quando la situazione volge al peggio si tirano indietro e passano la mano ai soci “occulti”, cioè alle banche. 

A questo punto sorge spontanea una domanda: per quale ragione le banche italiane, che dal 2008 vivono comunque la crisi economica come ogni altra impresa ed hanno attraversato un periodo di stretta creditizia, hanno concesso a Sorgenia finanziamenti così cospicui? Le cifre lette sui giornali parlano di 600 milioni di euro prestati dal Monte Paschi di Siena, 371 milioni di euro da Banca Intesa, 180 milioni di euro rispettivamente da Unicredit e da UBI, 177 milioni di euro da Popolare di Milano, 157 milioni da Banco Popolare per finire con importi minori da parte di banche più piccole. Sollecitazioni politiche? Nooooo….. 

Ma ancora: è moralmente accettabile in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, concentrare su un unico soggetto economico finanziamenti così importanti senza chiedere ai soci dell’iniziativa uno sforzo finanziario almeno equivalente? Perché tutti sono capaci di giocare a fare gli imprenditori con i denari altrui (delle banche in questo caso): quando le cose vanno bene gli utili se li incassano i soci, quando invece vanno male, come in questo caso, i cocci vanno alle banche che sono obbligate ad accettare, pena l’azzeramento dei propri crediti in caso di fallimento dell’iniziativa. 

Certo, gli istituti di credito prestano il denaro a chi vogliono, secondo criteri di merito creditizio, ma svolgono anche un ruolo sociale importantissimo: senza il loro supporto le imprese, soprattutto le più piccole e le più giovani, non riescono a crescere e a svilupparsi. Di conseguenza non può crescere e svilupparsi neanche il nostro Paese. Ecco perché i denari privati delle banche svolgono anche una funzione pubblica e di questo le aziende di credito devono tenerne conto. 

Ma torniamo al nostro caso: l’imprenditore questa volta è stato addirittura diabolico: nell’accordo siglato con le banche ha fatto inserire una clausola c.d. di earn – out: in sostanza se negli esercizi successivi all’entrata degli istituti di credito in Sorgenia le cose dovessero migliorare e la società producesse utili, la parte di questi utili che eccedesse quanto versato dalle banche creditrici, verrà ristornata ai vecchi soci. Quindi: se rimangono le passività, queste restano in bilancio alle banche, se arriveranno gli utili, una parte di questi andranno ai vecchi soci De Benedetti e Verbund. La logica di tutto ciò? A noi sfugge.

In conclusione: mentre tutti i media in questi giorni si sono focalizzati sull’affaire Alitalia, sulla Costa Concordia e sulle riforme istituzionali che non decollano, a noi ha colpito la vicenda di questo ennesimo tentativo, purtroppo finito male, di creare in Italia una vera concorrenza in un mercato così strategico come quello dell’energia. 

Probabilmente una sfida così impegnativa ai moloch ENI ed ENEL andava affidata a gruppi imprenditoriali più strutturati, con maggiori disponibilità finanziarie e con la voglia di investirle in Italia. L’anomalia italiana è legata ai rapporti malsani tra politica e classe imprenditoriale. Quando la politica sponsorizza l’imprenditore amico di turno, che magari ha una visione imprenditoriale, ma non vuole rischiare più di tanto il proprio patrimonio e quindi cerca altri mezzi finanziari e altri appoggi per realizzare quello che ha in mente, allora il risultato è quasi sempre fallimentare. Il caso Alitalia è da questo punto di vista, emblematico.

Cosa faranno le banche di Sorgenia è presto per dirlo. Di certo non si metteranno a vendere il contratto di luce e gas allo sportello….o forse….perché no?