SS Leviathan 1913
Ognuno di noi, chi più chi meno, si trova in questo periodo a fare i conti con un profondo cambiamento della propria vita a causa della presenza tra di noi del coronavirus o Covid-19.
Molti tra di noi hanno genitori anziani che sono i principali bersagli di questo nemico invisibile e sono preoccupati per la loro salute. Molti tra di noi hanno amici o conoscenti che sono stati contagiati dal virus e sono in apprensione per il decorso della malattia. Molti tra di noi sono forzatamente a casa, sia per ragioni lavorative e sia per ragioni sanitarie, messi in quarantena, come è capitato a chi sta scrivendo il post, perché venuto a contatto con chi poi è risultato positivo al test.
In poche settimane la nostra esistenza è stata radicalmente modificata da un nemico invisibile, un virus che è stato capace di mettere in discussione le nostre sicurezze e stili di vita che sembravano immodificabili.
Nell’epoca attuale, basata sulla velocità di trasferimento di qualsiasi cosa, dalle merci alle informazioni, anche il virus ha impiegato poco tempo a dare origine ad una pandemia.
In realtà anche nel secolo scorso, una forma analoga di infezione che viene ricordata con il nome di influenza “spagnola” non impiegò molto tempo per fare il giro del mondo.
Contrariamente a quanto si crede, come ci ricorda Laura Spinney nel suo libro: “1918. L’influenza spagnola, l’epidemia che cambiò il mondo”, la malattia ebbe origine negli Stati Uniti in un campo di addestramento militare delle reclute che dovevano partire per il fronte europeo della Grande guerra. Il primo soldato che il 4 marzo 1918 denunciò alla propria infermeria di Camp Funston in Kansas di soffrire di mal di gola, febbre e mal di testa fu Albert Gitchell. Al termine di quella stessa giornata i casi analoghi al suo furono oltre cento.
L’epidemia arrivò in Europa sulle navi americane che portavano le truppe in Francia e Inghilterra, da quei Paesi si sviluppò in Italia e Spagna. Tuttavia, in tempo di guerra, la notizia che una misteriosa malattia stava facendo strage di soldati al fronte, venne tenuta celata dai Paesi belligeranti per non demoralizzare il morale delle Nazioni. Ma in Spagna, neutrale ai tempi della Prima Guerra, la stampa non era sottoposta a censura e i giornali iniziarono a scrivere di quella strana influenza che circolava nelle trincee di mezza Europa e si iniziò a parlare di influenza spagnola.
Nel corso della primavera del 1918 si ammalarono i tre quarti delle truppe francesi e metà di quelle britanniche. In maggio la febbre colpì la Germania dove mise fuori combattimento 900.000 soldati. Dalla Germania, tramite prigionieri rimpatriati, si diffuse in Russia. A giugno 1918 il morbo era in Giappone e a luglio in Australia.
Come accaduto per il Covid-19, allora vi fu il caso del Leviathan, una delle navi più grandi al mondo, che salpò dal New Jersey diretta in Francia con a bordo 9.000 soldati. All’arrivo a Brest dopo una settimana di navigazione, i malati a bordo erano 2.000 con 90 decessi. Venne definita la nave della morte.
Si ammalarono a causa della spagnola Guillaume Apollinaire e Max Weber (morirono entrambi per le conseguenze del contagio), Mustafa Kemal in Turchia, Franklin Delano Roosvelt (all’epoca viceministro della Marina) Ernest Hemingway, John Dos Passos, D.H. Lawrence, il filosofo Martin Buber, Ezra Pound e anche il Mahatma Gandhi in India.
Si stima che nel biennio 1918-19 morirono nel mondo 50 milioni di persone, il 2,5 per cento della popolazione della Terra.
Piccolo riferimento personale: ricordo che mio nonno, nato nel 1903, mi raccontava che a causa della spagnola perse i suoi due fratelli più piccoli. Lui, che aveva circa 16 anni all’epoca dell’epidemia, riuscì a cavarsela in quanto più robusto dei suoi fratellini.
Come visto, la spagnola partì da occidente e nel giro di qualche mese si spostò verso oriente, arrivando a coprire ogni continente, Australia compresa. Ma al di là del punto geografico di partenza, i risvolti nei comportamenti umani che il virus della spagnola provocò sono i medesimi di quelli a cui stiamo assistendo oggi per contrastare il nostro Covid-19.
Ho la possibilità di accedere all’archivio storico digitalizzato del Corriere della Sera e prima di scrivere questo post ho passato un paio d’ore a leggere tutti gli articoli pubblicati tra il 1918 e il 1920 sull’argomento “spagnola”. Ebbene, i resoconti di cronaca (molto scarni e scarsi a dire il vero rispetto a quelli che si leggono oggi sui quotidiani) potrebbero benissimo essere pubblicati anche oggi, al tempo del coronavirus, in quanto propongono le stesse tematiche: come proteggersi dal contagio, i luoghi da evitare per non rischiare di essere infettati, le ordinanze governative con le nuove regole da seguire, i personaggi noti e famosi che sono stati contagiati e le cure dei medici che mano a mano si stavano sperimentando. Nulla di nuovo sotto il sole. Cento anni dopo la spagnola, il mondo è ancora sotto scacco per colpa di un nemico invisibile.
E forse è proprio questo il punto più interessante.
Il Covid-19 ha interrotto bruscamente i nostri modelli di comportamento, le nostre abitudini e ci sta costringendo a fare i conti con un qualcosa a cui forse prima non avevamo tempo per pensare, impegnati come eravamo a correre al lavoro, a correre dietro i figli, a correre nel week end, per riposarci dalle corse della settimana, a correre in vacanza per riposarci dall’aver corso per il lavoro e via così, corsa dopo corsa.
Il Covid-19 ci sta facendo fermare e in questo tempo dilatato, in casa con lo smart working, o senza lavoro, con il coniuge e i figli oppure da soli, ci sta obbligando a ripensare al nostro stile di vita.
Per chi possiede il dono della fede, questo tempo dilatato, che capita tra l’altro in un momento liturgico particolare, la Quaresima, è fonte senz’altro di profonde riflessioni sul significato di quanto sta accadendo. Ci stiamo accorgendo di come, non solo le grandi cose che ci occupavano il tempo, per esempio andare al lavoro o portare i figli a scuola, ma anche le piccole cose cui eravamo abituati, come andare a Messa, vedersi con il proprio gruppo di amici, andare a trovare i nonni e fare la spesa, celebrare un matrimonio o un funerale, non sono così scontate e ci possono essere tolte all’improvviso. Nulla, all’infuori dei nostri pensieri, è interamente in nostro potere.
In queste situazioni l’uomo reagisce andando a recuperare i modelli di comportamento atavici che risalgono alla notte dei tempi e per un attimo si perde. Ritorna l’uomo che viveva nelle grotte tre milioni di anni fa e si comporta senza usare la ragione, superata dall’istinto di sopravvivenza, dalla paura. L’abbiamo visto in ogni Nazione quando si sono presi per la prima volta provvedimenti radicali contro il virus, con l’assalto ai supermercati per fare scorta di generi alimentari.
All’uomo di fede, e parlo qui della Fede in Cristo, in questi casi spetta il compito di indicare la strada, di mantenere vivo l’uso della ragione che è sempre la via maestra che conduce alla Fede e di mantenere viva la Speranza, altra virtù teologale che insieme alla Carità ci aiuterà a superare anche questa prova. Perché una cosa è certa: alla fine anche il Covid-19 passerà alla storia e la vita ritornerà ai suoi ritmi.
Mi rendo conto in questi momenti che la Grazia di credere in Gesù mi aiuta a vedere le cose con la giusta lente, fornendo un criterio di giudizio per valutare tutto quello che accade. La fede in Cristo concretamente significa avere un gruppo di amici che ti permette, anche in situazioni che appaiono estreme come quelle che stiamo vivendo, di non perdere la speranza e di non cedere alla disperazione che ti circonda. Allora “andrà tutto bene” ha senso perché poggia sulla certezza di un Cristo risorto che ha vinto anche la morte. Per questo credo che al cristiano in questa fase sia chiesto di prendersi cura più di prima dell’uomo che non possiede il dono della fede.
Se c’è una parola che prima del Covid-19 era quasi scomparsa dal nostro vocabolario ed ora giocoforza è ritornata a farsi sentire è proprio la parola morte. Come scrive Massimo Diana nel suo libro “Narrare”, gli eterni e universali problemi che tutti quanti, prima o poi, incontriamo nella vita si possono sintetizzare in: imparare ad amare e prepararci a morire.
Imparare ad amare nel senso più alto significa imparare a prendersi cura delle altre creature e implica l’utilizzo corretto e l’educazione della propria libertà. Tale compito riguarda la prima parte della nostra vita. Prepararsi a morire significa che non è possibile svolgere il primo compito senza accettare e sopportare il dolore del lutto, la morte dei legami intessuti e l’accettazione del proprio limite. Questo il compito specifico della seconda parte della nostra vita. Ciò ci consente anche di trovare una risposta alla domanda più importante: quella sul senso e sul significato del nostro stesso esistere.
Ecco, se la venuta del Covid-19 ci potesse aiutare ad approfondire uno di questi aspetti, in relazione alla fase della vita che stiamo attraversando, allora alla fine, per assurdo, potremmo anche ringraziarlo. Perché personalmente credo che nulla capiti per caso.
Per terminare, possiamo porci questa domanda: può esistere un modo diverso per fare le cose?
Alcuni studiosi sostengono che dopo la spagnola il mondo non fu più lo stesso. Nacquero nuovi stili di vita, l’amore per lo sport e le attività all’aria aperta, e alcuni storici economisti pensano che la situazione economica disastrosa che la spagnola provocò fu tra le concause della Seconda Guerra mondiale.
Sarà così anche per il nostro post Covid-19?
Speriamo che l’attuale pandemia non provochi una nuova guerra mondiale, ma sicuramente qualche cambiamento dobbiamo aspettarcelo. Positivo, negativo?
Dipenderà dallo spirito con cui lo affronteremo.
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domenica 15 marzo 2020
Riflessioni sul Covid-19
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