Ci sono persone così povere che l'unica cosa che hanno sono i soldi.

Santa Madre Teresa di Calcutta

domenica 30 gennaio 2022

Nuovo blog Lorenzo Roberto Quaglia

Sono affezionato ad Aldebaran perché tramite questo blog ho mosso i primi passi nel mondo dei social, strumenti divenuti sempre più presenti nella vita di ognuno di noi.

Tuttavia da un po' di tempo meditavo di creare un nuovo blog dedicato principalmente alla mia attività di scrittore e al mondo della letteratura più in generale.

Così nel 2021, dopo la bruttissima esperienza del Covid, mi sono lanciato ed ho dato vita al mio nuovo sito lorenzorobertoquaglia.it che d'ora in avanti diventerà il mio canale principale con cui condividerò, con chi lo desidera, la mia esperienza di scrittore self publisher.

Ringrazio ognuno di voi per avermi seguito in questi anni e spero di ritrovarvi miei lettori anche nell'altro sito.

Buona continuazione a tutti nella quotidianità della vita che aspetta solo di essere vissuta.









domenica 27 dicembre 2020

Il mio (quasi) amico Covid 19

 

Covid 19



Da oltre nove mesi in Italia lo conoscono tutti. Probabilmente è la parola più cercata in rete in questo lasso di tempo. La maggior parte delle persone lo teme, una minoranza lo irride, pochi sono indifferenti alla sua presenza: solo quei disgraziati che già prima del suo arrivo non avevano niente da perdere. Esiste però anche un’altra minoranza formata da coloro che, come me, l’hanno visto da vicino. Il suo nome scientifico è Covid 19. 

Le prime manifestazioni della sua presenza nel mio corpo risalgono a venerdì 6 novembre.

Dopo una settimana di cure casalinghe che non avevano portato ad alcun significativo miglioramento dello stato di salute, su indicazione del medico curante ho chiamato il 118 e sono stato condotto al pronto soccorso del Sacco, ospedale milanese riservato ai pazienti scelti dal virus per un’esperienza unica e speriamo irripetibile.


Appena giunto ho capito che il virus mi aveva dedicato una particolare attenzione, probabilmente gli stavo simpatico. Guardando lo schermo della macchina, che il medico che mi stava esaminando i polmoni aveva di fronte, ho visto una grande macchia biancastra. Allora ho chiesto: “Dottore, come sono messo?”

Risposta: “Sarà una dura lotta.”

In quel momento ho capito di essere stato prescelto dal virus.


Perché io?


Ho passato tre giorni nell’astanteria del P.S. (così in gergo ospedaliero viene indicato il pronto soccorso) disteso a pancia in giù su una barella con un casco in testa (CPAP il termine “tecnico”) dentro il quale veniva iniettato ossigeno alla massima potenza che mi permetteva di respirare, ma non di riposare. 

Cosa ricordo di quelle ore?


Ricordo che pregavo il Signore che mi desse la forza di resistere ancora un minuto, per arrivare a quello successivo. Ricordo che, guardando di traverso, vedevo un gran via vai di malati, la maggior parte con il mio stesso abbigliamento da motociclista, con il casco in testa. Alcuni venivano trasportati in altri reparti e subito venivano rimpiazzati. Eravamo in tanti ad essere stati prescelti dal Covid 19.

Ricordo che pensavo che una situazione così non me la sarei proprio immaginata. L’unico termine di paragone che mi veniva in mente era un pronto soccorso militare in una zona di guerra, dove immagino vengano portati ogni cinque minuti i soldati feriti in combattimento.

E poi ricordai una frase che mi aveva detto un caro amico, al telefono, qualche giorno prima di essere ricoverato: Lorenzo, ricordati che il Signore non permette mai che qualcuno sia sottoposto a una dura prova senza che gli sia data la forza spirituale per affrontarla.


L’avrò io quella forza, mi chiedevo?


Dopo i tre giorni passati in astanteria, si liberò un posto nel reparto di infettivologia e fui trasferito lì: stanza con due letti, ma soprattutto avevo un letto vero, che è tutta un’altra cosa rispetto a una barella!

Trascorsi altri due giorni con il casco in testa (ma non in via continuativa) e finalmente i miei polmoni ripresero a funzionare meglio e così passai all’uso della “mascherina” che mi permetteva finalmente alla sera di poter riposare decentemente. 


Nelle quasi due settimane di permanenza in reparto ho avuto due compagni di stanza: prima Pietro, un simpatico ex pescatore di Bisceglie di 82 anni, dimesso dopo qualche giorno e poi Egidio, un napoletano verace di 70 anni con il quale ci siamo fatti compagnia per una decina di giorni. Siamo stati dimessi lo stesso giorno, il 3 dicembre 2020, data in cui il Covid 19 ha deciso di lasciarci ritornare alla vita di tutti i giorni.  


In realtà, la vita di tutti i giorni non è più la stessa: c’è stato un prima e c’è un dopo questa esperienza. 

La domanda che mi pongo ogni giorno è: perché? Perché io? 


Non ho mai creduto che le cose capitano per caso. Nella mia vita ho potuto verificare che ogni esperienza fuori dal comune, direi radicale come questa del Covid, ogni evento particolare, ogni svolta significativa mi ha condotto verso un nuovo punto di partenza e soprattutto mi ha permesso di compiere un passo in avanti nella consapevolezza di quello che è il mio desiderio incompiuto di felicità. 

Ognuno di noi desidera essere felice e soprattutto desidera essere amato, prima di amare.


È un fatto: la vanità è la migliore arma nelle mani del Maligno. Quando ero disteso nella barella in astanteria pensavo a mia moglie, ai miei figli, ai miei genitori e ai tanti amici che mi stavano sostenendo con le loro preghiere, ed ero contento, quasi orgoglioso che fossero preoccupati per me. In quel momento ero al centro delle loro attenzioni, o almeno lo speravo. Il desiderio di essere amati si manifestava anche in quella situazione estrema, rischiosa per la mia stessa vita, che però desiderava essere al centro dell’attenzione di qualcuno anche in quel momento. 


E quindi, cosa significa: che il destino mi ha sottoposto a questa dura prova solo per svelarmi che sono vanitoso e orgoglioso? Ma questo lo sapevo già. 


E allora, mi ripeto, perché io?


Forse, un inizio di risposta mi è venuta in mente ripensando a Massimo Diana e al suo libro ‘Narrare’. Scrive il filosofo che ogni uomo nel corso della vita deve affrontare due eterni e universali problemi: imparare ad amare e prepararsi a morire

Se ripenso alle tre settimane trascorse in ospedale, alla luce di questi due ultimi imperativi, allora l’esperienza fatta assume un significato più chiaro.


Stando immobile in un letto d’ospedale, bisognoso di tutto e di tutti, ho imparato ad amare i piccoli gesti gratuiti, come un sorriso, uno sguardo, una particolare attenzione nel farmi una puntura o nel cambiare una flebo, che mi venivano donati da medici e infermieri, amici e compagni di avventura. Piccole cose che normalmente non avrei neanche notato, apparentemente senza valore, ma che fanno la differenza quando si è con le spalle al muro. 


Prepararsi a morire invece è la parte più difficile del cammino, perché è la meta a cui tutti noi tendiamo, ma senza volerlo accettare, anzi facciamo di tutto per dimenticare che è la stazione d’arrivo del nostro viaggio su questa terra. Probabilmente ogni tanto, fare qualche fermata intermedia, in qualche stazione apparentemente dimenticata da Dio, potrebbe anche farci bene, perché ci ricorda la destinazione finale a cui dobbiamo arrivare possibilmente in buone condizioni, cioè preparati, se non vogliamo restare delusi alla fine del viaggio. Perché la vera domanda che ognuno dovrebbe porsi è questa: ma quando arriveremo alla nostra personale stazione d’arrivo, troveremo qualcuno ad attenderci con le braccia aperte?  


Ecco, probabilmente l’esperienza appena vissuta mi è stata proposta, stavo per scrivere donata, dal mio personale destino, per aiutarmi a ricordare questi due aspetti della vita, per meglio imparare ad apprezzare le piccole cose di tutti i giorni e per farmi fare un breve scalo in una stazione intermedia, per farmi prendere una pausa di riflessione durante il cammino che sto compiendo insieme ai miei compagni di viaggio.


E allora, in questo caso, quello che mi è capitato lo posso anche accettare, senza vanità e orgoglio, e posso anche arrivare ad augurare buon Natale al mio (quasi) amico Covid 19.

 

giovedì 8 ottobre 2020

Omicidio sulla Martesana







Un noir ‘corale’ ambientato in una delle zone più caratteristiche di Milano, questo è in sintesi l’ultimo libro scritto da Giuseppe Carfagno e pubblicato dalla casa editrice Il Ciliegio.


A Ponte Vecchio, sopra il Naviglio Martesana, un misterioso Pierrot accoltella con un kriss un giovane informatico e prima di gettarlo nel canale, gli ruba il portafogli e le chiavi di casa. Sarà solo il primo di una serie di crimini di cui dovranno occuparsi gli uomini della Polizia coordinati dal commissario capo Andrea Costa e da tutta la sua squadra: l’ispettore Cattaneo, gli agenti Zacconi, Freschi, Guglielmi e Diaz e la frizzante e accattivante viceispettrice, pugliese d’origine, Lucia Sacchi, non ancora trentenne. I personaggi si fanno conoscere pagina dopo pagina e finiscono per affascinare il lettore per la loro spontaneità e originalità. Su tutti spicca Andrea Costa, il commissario che si impone già da questo primo romanzo per il suo modo di fare e il suo acume e che meriterebbe di essere il protagonista di una serie di altre indagini future.

 

La trama si sviluppa con un ritmo serrato avendo come sfondo la Milano tra Gorla e Precotto, con i suoi punti di riferimento caratteristici, Via Padova, Viale Monza, Ponte Vecchio, Villa Singer, Cassina de Pomm e soprattutto la Martesana: luoghi che sembrano eterni, fuori dal tempo, eppure parte integrante della città contemporanea. 

 

Certamente anche l’ambientazione, originale, contribuisce a far sì che questo noir sia particolare e insolito, con un finale coinvolgente e assolutamente attuale. La scrittura scorrevole e precisa di Carfagno rende il giallo molto ‘milanese’ e piacevole da leggere ad ogni età, dai più giovani a coloro che sono entrati negli “anta” da un pezzo.

 

Un libro da non lasciarsi scappare, soprattutto dagli amanti del giallo ‘milanese’!


Giuseppe Carfagno, Omicidio sulla Martesana, Edizioni Il Ciliegio 2020

giovedì 24 settembre 2020

Triunvirato

triunvirato



Ne avevo parlato già in un post di febbraio, scritto prima dell’inizio dell’avventura Covid-19 ( Post 18 febbraio 2020). 


Ora cosa fatta è: solo il 30% degli italiani che sono andati a votare per il referendum hanno votato No al taglio dei parlamentari. La vittoria del Sì d’altra parte era assolutamente prevedibile e annunciata da tutti i media.

 

A questo punto della vicenda, non potendo più tornare indietro, occorre sperare che questo Parlamento che ha votato a maggioranza quasi assoluta il taglio di una parte dei propri rappresentanti (senza pensare alle conseguenze che questa azione avrebbe comportato sulla rappresentatività parlamentare, sul corretto funzionamento della “macchina” del potere legislativo e sui tanti “meccanismi” istituzionali, quali ad esempio l’elezione del Capo dello Stato) sia in grado di porre in atto una vera “riforma” di questi meccanismi costituzionali (come ad esempio una decente legge elettorale e una decente riforma dei Regolamenti delle Camere). 

 

Il populismo imperante ormai ad ogni livello sociale e culturale ci può far sembrare queste tematiche astratte e lontane dall’interesse delle persone, ma esse sono il cuore segreto, pulsante della nostra vita democratica, sono l’atrio e il ventricolo di una vita politica con la P maiuscola.  

 

Certo, sarebbe stato meglio e più onesto da parte dei parlamentari eletti in questa legislatura se si fossero impegnati a proporre una vera riforma costituzionale e non solo un “taglio secco” di 345 parlamentari senza pensare alle conseguenze di tale decisione.

 

Purtroppo, sono decenni che in Italia si sente parlare di riforme costituzionali e, a dire il vero, alcune proposte più o meno organiche, sono state portate avanti: ricordo quella tentata dal Governo D’Alema, quella del Governo Berlusconi bocciata dal referendum costituzionale del 2006 e l’ultima in ordine di tempo quella approvata sotto il Governo Renzi che fu bocciata dagli italiani con il referendum del 2016. Quelle furono vere riforme costituzionali, ma non trovarono il favore della maggioranza degli italiani.

 

Questa volta invece, sembra che il messaggio populista portato avanti in primis dal Movimento 5 Stelle abbia convinto la maggioranza degli italiani.

 

Personalmente sono contrario ad approcciare una materia così delicata come si è fatto. Non credo che partire dal taglio dei parlamentari possa essere la soluzione ai mali che affliggono la politica italiana. 


Quello che occorreva ricercare, e che adesso è assolutamente necessario fare, è un nuovo tipo di accordo che per forza di cose deve essere politico e deve riguardare tutte le forze, quelle al governo e quelle ora all’opposizione. Entrambe devono lavorare per disegnare un nuovo modello di equilibrio costituzionale tra poteri dello Stato, possibilmente migliore di quello attuale. Ci riusciranno?

 

Penso che sia evidente che una riforma di questo tipo va pensata, meditata e condivisa prendendosi il tempo che ci vuole, e va difesa soprattutto dagli attacchi di quel populismo che oggi sembra condizionare fortemente anche scelte così importanti per la crescita futura del Paese. 

 

Credo che un sano ricorso a quello che una volta nei testi di giurisprudenza veniva definito come “buon senso del padre di famiglia” possa aiutare ad affrontare il particolare momento storico, sempre che di questa sostanza, ormai rara, gli attuali parlamentari ne abbiano contezza.

 

Altrimenti, l’alternativa che ci attende l’abbiamo ascoltata questa mattina dalla voce di un comico, intervenuto in videoconferenza ad un convegno promosso dal Parlamento europeo, che si erge a maître à penser di una moltitudine di singoli individui cui si fa credere di poter decidere con il voto telematico le sorti del loro Paese, mentre, nella realtà, sono solo degli automi teleguidati da un triunvirato che, per definizione, non pensa e non agisce mai in modo democratico.

 

Da questo punto di vista la Bielorussia di Lukashenko non è poi così lontana dall'Italia.

domenica 15 marzo 2020

Riflessioni sul Covid-19

SS Leviathan 1913




Ognuno di noi, chi più chi meno, si trova in questo periodo a fare i conti con un profondo cambiamento della propria vita a causa della presenza tra di noi del coronavirus o Covid-19.

Molti tra di noi hanno genitori anziani che sono i principali bersagli di questo nemico invisibile e sono preoccupati per la loro salute. Molti tra di noi hanno amici o conoscenti che sono stati contagiati dal virus e sono in apprensione per il decorso della malattia. Molti tra di noi sono forzatamente a casa, sia per ragioni lavorative e sia per ragioni sanitarie, messi in quarantena, come è capitato a chi sta scrivendo il post, perché venuto a contatto con chi poi è risultato positivo al test.

In poche settimane la nostra esistenza è stata radicalmente modificata da un nemico invisibile, un virus che è stato capace di mettere in discussione le nostre sicurezze e stili di vita che sembravano immodificabili. 

Nell’epoca attuale, basata sulla velocità di trasferimento di qualsiasi cosa, dalle merci alle informazioni, anche il virus ha impiegato poco tempo a dare origine ad una pandemia.
In realtà anche nel secolo scorso, una forma analoga di infezione che viene ricordata con il nome di influenza “spagnola” non impiegò molto tempo per fare il giro del mondo.

Contrariamente a quanto si crede, come ci ricorda Laura Spinney nel suo libro: “1918. L’influenza spagnola, l’epidemia che cambiò il mondo”, la malattia ebbe origine negli Stati Uniti in un campo di addestramento militare delle reclute che dovevano partire per il fronte europeo della Grande guerra. Il primo soldato che il 4 marzo 1918 denunciò alla propria infermeria di Camp Funston in Kansas di soffrire di mal di gola, febbre e mal di testa fu Albert Gitchell. Al termine di quella stessa giornata i casi analoghi al suo furono oltre cento. 

L’epidemia arrivò in Europa sulle navi americane che portavano le truppe in Francia e Inghilterra, da quei Paesi si sviluppò in Italia e Spagna. Tuttavia, in tempo di guerra, la notizia che una misteriosa malattia stava facendo strage di soldati al fronte, venne tenuta celata dai Paesi belligeranti per non demoralizzare il morale delle Nazioni. Ma in Spagna, neutrale ai tempi della Prima Guerra, la stampa non era sottoposta a censura e i giornali iniziarono a scrivere di quella strana influenza che circolava nelle trincee di mezza Europa e si iniziò a parlare di influenza spagnola. 

Nel corso della primavera del 1918 si ammalarono i tre quarti delle truppe francesi e metà di quelle britanniche. In maggio la febbre colpì la Germania dove mise fuori combattimento 900.000 soldati. Dalla Germania, tramite prigionieri rimpatriati, si diffuse in Russia. A giugno 1918 il morbo era in Giappone e a luglio in Australia. 

Come accaduto per il Covid-19, allora vi fu il caso del Leviathan, una delle navi più grandi al mondo, che salpò dal New Jersey diretta in Francia con a bordo 9.000 soldati. All’arrivo a Brest dopo una settimana di navigazione, i malati a bordo erano 2.000 con 90 decessi. Venne definita la nave della morte.

Si ammalarono a causa della spagnola Guillaume Apollinaire e Max Weber (morirono entrambi per le conseguenze del contagio), Mustafa Kemal in Turchia, Franklin Delano Roosvelt (all’epoca viceministro della Marina) Ernest Hemingway, John Dos Passos, D.H. Lawrence, il filosofo Martin Buber, Ezra Pound e anche il Mahatma Gandhi in India. 
Si stima che nel biennio 1918-19 morirono nel mondo 50 milioni di persone, il 2,5 per cento della popolazione della Terra. 

Piccolo riferimento personale: ricordo che mio nonno, nato nel 1903, mi raccontava che a causa della spagnola perse i suoi due fratelli più piccoli. Lui, che aveva circa 16 anni all’epoca dell’epidemia, riuscì a cavarsela in quanto più robusto dei suoi fratellini.

Come visto, la spagnola partì da occidente e nel giro di qualche mese si spostò verso oriente, arrivando a coprire ogni continente, Australia compresa. Ma al di là del punto geografico di partenza, i risvolti nei comportamenti umani che il virus della spagnola provocò sono i medesimi di quelli a cui stiamo assistendo oggi per contrastare il nostro Covid-19.

Ho la possibilità di accedere all’archivio storico digitalizzato del Corriere della Sera e prima di scrivere questo post ho passato un paio d’ore a leggere tutti gli articoli pubblicati tra il 1918 e il 1920 sull’argomento “spagnola”. Ebbene, i resoconti di cronaca (molto scarni e scarsi a dire il vero rispetto a quelli che si leggono oggi sui quotidiani) potrebbero benissimo essere pubblicati anche oggi, al tempo del coronavirus, in quanto propongono le stesse tematiche: come proteggersi dal contagio, i luoghi da evitare per non rischiare di essere infettati, le ordinanze governative con le nuove regole da seguire, i personaggi noti e famosi che sono stati contagiati e le cure dei medici che mano a mano si stavano sperimentando. Nulla di nuovo sotto il sole. Cento anni dopo la spagnola, il mondo è ancora sotto scacco per colpa di un nemico invisibile. 

E forse è proprio questo il punto più interessante.


Il Covid-19 ha interrotto bruscamente i nostri modelli di comportamento, le nostre abitudini e ci sta costringendo a fare i conti con un qualcosa a cui forse prima non avevamo tempo per pensare, impegnati come eravamo a correre al lavoro, a correre dietro i figli, a correre nel week end, per riposarci dalle corse della settimana, a correre in vacanza per riposarci dall’aver corso per il lavoro e via così, corsa dopo corsa. 

Il Covid-19 ci sta facendo fermare e in questo tempo dilatato, in casa con lo smart working, o senza lavoro, con il coniuge e i figli oppure da soli, ci sta obbligando a ripensare al nostro stile di vita.

Per chi possiede il dono della fede, questo tempo dilatato, che capita tra l’altro in un momento liturgico particolare, la Quaresima, è fonte senz’altro di profonde riflessioni sul significato di quanto sta accadendo. Ci stiamo accorgendo di come, non solo le grandi cose che ci occupavano il tempo, per esempio andare al lavoro o portare i figli a scuola, ma anche le piccole cose cui eravamo abituati, come andare a Messa, vedersi con il proprio gruppo di amici, andare a trovare i nonni e fare la spesa, celebrare un matrimonio o un funerale, non sono così scontate e ci possono essere tolte all’improvviso. Nulla, all’infuori dei nostri pensieri, è interamente in nostro potere.

In queste situazioni l’uomo reagisce andando a recuperare i modelli di comportamento atavici che risalgono alla notte dei tempi e per un attimo si perde. Ritorna l’uomo che viveva nelle grotte tre milioni di anni fa e si comporta senza usare la ragione, superata dall’istinto di sopravvivenza, dalla paura. L’abbiamo visto in ogni Nazione quando si sono presi per la prima volta provvedimenti radicali contro il virus, con l’assalto ai supermercati per fare scorta di generi alimentari. 

All’uomo di fede, e parlo qui della Fede in Cristo, in questi casi spetta il compito di indicare la strada, di mantenere vivo l’uso della ragione che è sempre la via maestra che conduce alla Fede e di mantenere viva la Speranza, altra virtù teologale che insieme alla Carità ci aiuterà a superare anche questa prova. Perché una cosa è certa: alla fine anche il Covid-19 passerà alla storia e la vita ritornerà ai suoi ritmi. 

Mi rendo conto in questi momenti che la Grazia di credere in Gesù mi aiuta a vedere le cose con la giusta lente, fornendo un criterio di giudizio per valutare tutto quello che accade. La fede in Cristo concretamente significa avere un gruppo di amici che ti permette, anche in situazioni che appaiono estreme come quelle che stiamo vivendo, di non perdere la speranza e di non cedere alla disperazione che ti circonda. Allora “andrà tutto bene” ha senso perché poggia sulla certezza di un Cristo risorto che ha vinto anche la morte. Per questo credo che al cristiano in questa fase sia chiesto di prendersi cura più di prima dell’uomo che non possiede il dono della fede. 

Se c’è una parola che prima del Covid-19 era quasi scomparsa dal nostro vocabolario ed ora giocoforza è ritornata a farsi sentire è proprio la parola morte. Come scrive Massimo Diana nel suo libro “Narrare”, gli eterni e universali problemi che tutti quanti, prima o poi, incontriamo nella vita si possono sintetizzare in: imparare ad amare e prepararci a morire

Imparare ad amare nel senso più alto significa imparare a prendersi cura delle altre creature e implica l’utilizzo corretto e l’educazione della propria libertà. Tale compito riguarda la prima parte della nostra vita. Prepararsi a morire significa che non è possibile svolgere il primo compito senza accettare e sopportare il dolore del lutto, la morte dei legami intessuti e l’accettazione del proprio limite. Questo il compito specifico della seconda parte della nostra vita. Ciò ci consente anche di trovare una risposta alla domanda più importante: quella sul senso e sul significato del nostro stesso esistere.

Ecco, se la venuta del Covid-19 ci potesse aiutare ad approfondire uno di questi aspetti, in relazione alla fase della vita che stiamo attraversando, allora alla fine, per assurdo, potremmo anche ringraziarlo. Perché personalmente credo che nulla capiti per caso. 

Per terminare, possiamo porci questa domanda: può esistere un modo diverso per fare le cose?

Alcuni studiosi sostengono che dopo la spagnola il mondo non fu più lo stesso. Nacquero nuovi stili di vita, l’amore per lo sport e le attività all’aria aperta, e alcuni storici economisti pensano che la situazione economica disastrosa che la spagnola provocò fu tra le concause della Seconda Guerra mondiale.

Sarà così anche per il nostro post Covid-19?

Speriamo che l’attuale pandemia non provochi una nuova guerra mondiale, ma sicuramente qualche cambiamento dobbiamo aspettarcelo. Positivo, negativo?

Dipenderà dallo spirito con cui lo affronteremo.