Ci sono persone così povere che l'unica cosa che hanno sono i soldi.

Santa Madre Teresa di Calcutta

sabato 28 dicembre 2013

Frozen

Frozen, USA, 2013, Regia di Chris Buck e Jennifer Lee


Recensione di Alberto Bordin


Avete presente quella bella ragazza? Sì, dai, quella davvero carina, quel fiore di ragazza diciottenne che è appena sbocciata donna e che ti offre la sua compagnia a una tavolata e una birra con gli amici; ti basta guardarla negli occhi e dici “questa promette bene”. È quella ragazza che non è bellissima e per questo ti intriga forse un po’ di più perché, chissà come mai, è estremamente graziosa. Parliamo di quel genere di ragazza che non è venuta vestita bene alla serata, ma ha già acceso l’atmosfera con i suoi sorrisi. Ha aperto lei le danze alla discussione e l’argomento è anche interessante; e poi attacca a canticchiare, e spesso, alle volte improvvisa pure. E quanto si ride! – Chissà perché? ma succede. È una ragazza di quella specie che sa vestire un po’ tutto di sobrio fascino e di tanta attesa. Una ragazza che sa reggere bene il gioco quasi pattinasse, che scivola ma poi piroetta. E tutto scorre tranquillo scaldando la simpatia e infine accendendo anche l’aspettativa… E proprio in quell’istante eccola che capitombola.

L’aspettativa infatti aguzza la vista e allora cominci ad accorgerti che tante cose non funzionano, anzi, che alcune proprio non vanno. La ragazza è intonata ma sa essere un po’ un disco rotto; e poi va bene improvvisare, ma se non canta ogni due minuti forse è meglio, e poi quella melodia mi pare di averla già sentita prima … E lentamente si fa avanti l’imbarazzo, perché ti accorgi che sì sorride sempre, ma il suo è un ridere carico di disagio e non di sicurezza. Con un po’ di brividi capisci che non ha nemmeno diciott’anni ma solo sedici e si è infilata a un tavolo di adulti; ti accorgi che potrebbe anche essere bella – sì, ma tra un paio d’anni –; che avrebbe anche carattere – tra un paio d’anni –; e che sarebbe anche intelligente … se non avesse abbandonato gli studi due anni fa.

E il tuo compagno di bevuta ti ascolta mentre ti lagni e ti risponde: “ma via, che te ne importa! Sta sera non avrai trovato l’amore della tua vita, ma non puoi negare il piacere della compagnia!”. Sarà anche vero, ma è stato lui ad invitarvi a quella serata promettendovi qualcosa di eccezionale, avete speso 8,50€ per quella birra in compagnia, e che lui ne dica quel locale è dove avete incontrato i primi e molti dei più cari e caldi amori della vostra vita. Perché è questo che per molti vuol dire entrare a scaldarsi sotto il tetto di casa Disney: ci si aspetta speranzosi un nuovo amore da portare a casa e da aggiungere a una storia di conquiste. E la piccola e bella Frozen forse era una candidata gradevole, ma è uscita troppo presto dal guscio e si è venduta prima di essere maturata a sufficienza.

È questa la sensazione che dà l’intero film: quello di un grande abbozzo non sbozzato. Il film sembra avere davvero voglia di raccontarsi, trasuda un affetto che è disseminato in tanti piccoli dettagli, battute, gag, espressioni nascoste nelle situazioni, nei volti, nei gesti, nei movimenti e in qualche nota inaspettatamente struggente. Ma niente cancella il presentimento che sarebbe dovuto rimanere in stato d’incubazione ancora un anno se non due. Bello il bisticcio tra un cuore che non ragiona e una testa che non ama; eppure se fosse stato davvero coltivato chissà fin dove avrebbe potuto portare la storia! E così il fatto che i segreti dell’amore siano custoditi da troll fatti di pietra; ma questa loro sostanza litica li costituisce solo all’apparenza, costretti al ruolo di semplice collante narrativo. Per non parlare del profondo dramma di Elsa, che vorrebbe vivere la propria identità, libera dal pesante giogo della corona e da quelle responsabilità per le quali i suoi poteri sono una tale minaccia; per assurdo essere se stessa le impedisce di essere per gli altri. E il senso di tutto questo si compie nella sorella Anna, che dovendo fare i conti con un cuore di ghiaccio condividerà la condizione di Elsa, e sarà lei a scoprire che quell’amore che ci sana dai dolori del cuore non può sempre essere atteso dall’esterno ma ad un certo punto deve nascere in noi. Gentile, toccante, intelligente … Ma dov’è che tutto questo trova vera sostanza eccetto che in un discorso?

E questa povertà creativa punge tutta la produzione, priva di un’animazione di qualità, popolata di personaggi anonimi nel disegno e poveri nelle texture, spogliata di dettaglio e struttura, nella fisica degli spazi, della luce e delle atmosfere, dove nulla s-garba ma in fondo tutto si limita solo a essere garbato. Poi il cartone ha certamente voglia di cantare, ma come quei bambini che non sanno quando smettere; spontaneo, articolato anche in qualche duetto che tenta di essere più corposo del precedente Rapunzel, ma lascia oltremodo a desiderare – praticamente sempre –, sia per le basi musicali assolutamente prive di sostanza, sia per talune soluzioni di rima e prosa da far vergogna ai dialoghi di Federico Moccia, sia per un’interpretazione, specialmente recitativa, che in maniera troppo palese prende il testimone da un entusiasmo canterino tutto americano e narrativamente molto poco credibile o coinvolgente.

Sembra di sentire John Lasseter premere faticosamente da dietro. Lo fa con misura e pazienza, lasciando che le cose che devono crescere crescano e che quelle che sono rotte si riparino col tempo; ma tutto il suo genio e il suo affetto all’animazione non possono porre riparo a un prodotto che manca di cuore, e i suoi larghi sorrisi paffuti lasciano il posto a estenuanti sospiri. È evidente fin dal cortometraggio che introduce la pellicola che la Disney è seriamente intenzionata a rivolgersi alle proprie origini, di riscoprire un’originalità e un’identità fedeli al mondo vecchio, senza che sia per questo miope al nuovo. Ma più che interessanti esperimenti d’animazione, non può venir nulla da una storia che non sa perché esiste. Il fatto è che nel nuovo prodotto Disney c’è bisogno di più Ralph Spaccatutto e di meno Frozen; il fatto è che servono più adulti che diventano amici dei bambini, e meno bambini che cercano di fingersi adulti.

lunedì 23 dicembre 2013

I sogni segreti di Walter Mitty

I sogni segreti di Walter Mitty, USA, 2013, Regia di Ben Stiller

Recensione di Alberto Bordin


Ben Stiller non è mai stato aggraziato; frizzante, provocatorio, divertente forse (non però quanto è convinto di esserlo), ma sempre un diplomato alla scuola del grottesco. Ma che sia stata la maturazione o un miracolo natalizio, “I sogni segreti di Walter Mitty” è un prodotto di vera grazia.

Non servono tante parole a dipingere questo piccolo gioiello, quindi ci terremo all’essenziale. È una storia estremamente semplice e per questo semplicemente efficace. Walter è un impiegato della rivista LIFE e ci lavora da 16 anni sviluppando rullini all’ombra di bui scaffali; la sua vita è una glaciale monotonia, come un pacco d’ufficio mai aperto, parrebbe quasi non abbia un passato, che la sua vita sia cominciata col cominciare del film, tanto che il suo profilo internet per incontri di coppia è vuoto: mai stato in nessun posto particolare, mai fatto nulla di particolare. Walter è un individuo che nonostante la pulizia asettica della propria persona sembra spandere polvere e vecchiume da tutti i pori, passivo in maniera a dir poco disarmante, e per questo carico di una fervida immaginazione, libero e prigioniero della sua stessa fantasia che gli farà anche vivere l’impossibile, ma poi lo frena nel probabile. Sarà proprio questo individuo che dovrà partire verso l’ignoto in una folle avventura: Walter percorrerà la Groenlandia, e poi l’Islanda, e poi toccherà al Pakistan, fino in cima al K2 per recuperare l’ultima foto, il capolavoro del più importante fotografo vivente di LIFE, nonché copertina del numero di chiusura della rivista.

Lo sviluppo della storia è semplice, appunto, a tratti quasi prevedibile, ma quanto è bello sentirsela raccontare! È come una vecchia storia che già conosciamo, arricchita di un po’ di dettagli e tanto gusto e poi messa in bocca a nostro nonno, a quello che le storie le sa raccontare bene. E allora siamo tutti lì ad ascoltarlo, anche quelli che non volevano, che passavano di lì per sbaglio per altre mansioni, ma che quando hanno messo orecchio nel racconto non ne sono più usciti, intrappolati anche loro nel dolce scorrere di parole. Si tratta solo di quell’abilità estremamente rara di saper mettere tutte le cose al loro posto; magari non sono le più originali, o le più ricche, o le più numerose, ma tutte hanno senso di esistere, e costruiscono un tassello alla volta una storia più profonda di quanto ti aspettassi. Questo Ben Stiller racconta finalmente di un uomo, e in modo così affettuoso e tenero che non sembra più nemmeno lui – eppure è lui, non lo si può confondere. Di più non c’è da dire, risulta quasi difficile spiegarlo.

Si tratta forse di una delle più belle apologie alla fantasia che il cinema ci abbia offerto, perché noi fantastichiamo con spontaneità, ci viene naturale perché siamo fatti per il fantastico e l’avventura, ma la vita è avventurosa e fantastica se veramente vissuta; e viverla è in fondo l’unico modo di rimanere giovani … anzi di tornare ad esserlo, ed essere di nuovo uomini, perché gli uomini non sono fatti per la vecchiaia. E allora viviamo la vita; e la fantasia non ci serve più.

martedì 17 dicembre 2013

A tu per tu con: la passione delle due ruote

Oggi a "Tu per Tu" incontriamo Claudio Minotti, bancario di professione, con una smisurata, grandissima, enorme passione: la motocicletta.

D.:Claudio, a che età ti è venuta la passione per le due ruote? Ti ricordi un episodio particolare legato alla scoperta di questo oggetto di locomozione particolare? 
R.: La mia passione per la moto nasce assai presto legata a quella più in generale dei motori. La prima scintilla, termine più appropriato non trovo, scocca all'età di dieci - undici anni quando mio padre mi portò per la prima volta alla mitica Pista Rossa all' Idroscalo di Milano per provare il primo go- kart . A tredici anni cominciai a "rompere le scatole" per il primo motorino che papà mi regalo a luglio del 1967 per il mio onomastico all' età di 14 anni. E non era un motorino ma una vera moto leggera. A 19 anni poi comprai la mia Moto Guzzi Superalce (ex Esercito) che ho ancora oggi . Ma questa è un' altra storia! 

Il Superalce!
D.: Quando sei al manubrio di una moto quali sono le sensazioni che provi? 
R.: Quando guidi una moto la cosa più bella è il senso di ..... assoluta libertà . Il vento sulla faccia (oggi meno per via del casco), il rumore del motore nelle orecchie e tu che sei padrone di te stesso e fai vibrare il tuo motore con l'acceleratore all'unisono coi battiti sempre più forti del tuo cuore. Credo sia molto simile all'ebbrezza che avevano i primi piloti di aereo "rapiti" dallo status di simbiosi con il proprio mezzo che ti rende un tutt'uno con lui. 

D.: Motocicletta 10 HP cantava Lucio Battisti in una sua famosa canzone. Quali sono le tue moto preferite? 
R.: Le mie moto preferite sono ovviamente .... le mie. Tutte moto d'epoca. Del Superalce ho già detto. Lo comprai per 120.000 lire nel 1972 da un Concessionario Guzzi (le ritiravano alle aste dell' Esercito che alienava i mezzi obsoleti). E' una moto del 1947 addirittura più vecchia di me (sono del 1953) ed è stata .... il grande amore della mia vita. Lei c'è sempre, di "compagne" di sesso femminile invece sono ..... al terzo tentativo! Mah forse la differenza è che la moto se non funziona la smonti, vedi quello che non funziona e la ripari. Con le donne purtroppo ...... non si può fare lo stesso! Quindi .....meglio cambiarle! 

D.: Qualcuno ha detto: "Non è vero che non si vive senza una moto, è vero invece che senza una moto non si può dire di aver vissuto" . Quando parli di moto, i tuoi occhi si illuminano di una luce particolare, quella della passione. Che cosa ha significato nella tua vita il rapporto con le tue moto? 
R.: Comprai il Superalce perché non potevo permettermi le Honda e le Kawasaki che andavano per la maggiore nei primi anni 70 e che i miei amici possedevano ma quando nel 2004 restaurai completamente la Guzzi mi dissi : ma adesso posso comprarmi la Kawasaki ! Naturalmente non quelle di oggi ma il mito dei primi anni settanta : la Mach III ovvero un tre cilindri 500 cc due tempi (proprio come i motorini) con 60 cavalli da 200 km/ora battezzata ai tempi la "bara volante" perché impenna ancor oggi in terza e (nei primi modelli) con freni ed un telaio "ridicolo" rispetto ad un motore che all' epoca aveva più cavalli delle moto inglesi usate dai piloti da corsa "privati". 
La mia è del 1974 ed è la prima con il colore verde che ancora oggi è il classico verde Kawasaki e con un freno a disco anteriore più che onesto ( forse per questo è arrivata fino ad oggi senza stamparsi su di un platano). 
Quando acceleri ed entra in coppia ti dà ancor oggi sensazioni uniche che le moto moderne neanche si sognano! 
Ho fatto in estate il giro della Corsica e ovunque mi fermavo c'era qualcuno, francese, inglese, tedesco, perfino australiani che mi chiedevano di fotografare la mia "fattrice di vedove" altro nome poco carino con cui gli americani avevano soprannominato la Kawasaki 500. 

Del tutto diversa la terza mia bene amata : si tratta di una Vespa 125 ETS del 1985 un modello poco conosciuto, versione sportiva della serie PK, poco apprezzata a suo tempo ma rivalutata ora perché prodotta in soli 6.000 esemplari che per una Vespa vuol dire ....niente! Anche questa è una bestiolina molto nervosa che arriva quasi a cento all'ora che sulle ruotine della Vespa .....è un bell'andare. 
L'ho avuta in regalo da mia cognata che la usava per scendere a Sori dal paesino sui monti circostanti della Liguria dove aveva un appartamento. Lasciato l'appartamento la Vespa non le serviva più . 
L'ultima delle mie bimbe è ancora una Kawasaki, una z650 dell' 82 quattro cilindri, sorella minore di quella 900 che aveva mandato in pensione i Kawasaki a due tempi "uccisi" dalle leggi anti inquinamento statunitensi e sostituite dai multi cilindrici a quattro tempi. E' stato il mio regalo per i miei 60 e la uso, oltre che per venire in ufficio nei mesi in cui un "vecchietto" come me può permetterselo, per fare dei giri turistici con la mia attuale compagna (che però preferisce il Superalce) e gli amici del Moto Club di Carate Brianza con cui ogni anno faccio anche un giro con sei o sette Superalce da 800 / 1.000 km con annesso articolo su Motociclismo d' Epoca. La 650 e' comoda con un bauletto esagerato ma non ha niente a che vedere con la 500 sua sorella, però è assolutamente la migliore per i lunghi spostamenti. 

D.: Che cosa significa per te oggi la moto? 
R.: Rispondere che cosa rappresenti la moto per me lo puoi capire leggendo quanto ho scritto qui sopra. È un rapporto continuo che si realizza non solo quando puoi utilizzare le tue moto ma anche come ora il tempo non permette di andare tranquillamente in giro senza rischiare che ti si ghiaccino le dita ed il naso per il freddo. Ed infatti la manutenzione dei mezzi dove la mettiamo? È un qualcosa di assolutamente "maniacale" forse proprio perché si tratta di "signore" di una certa età che richiedono mille attenzioni ma sulle quali ormai ci metti le mani sopra ad occhi chiusi al contrario delle moto moderne prigioniere della loro esasperata elettronica. Qui no, cacciavite e chiavi inglesi vanno a nozze con motori che hanno ancora degli stupendi carburatori! E cosa c'è di più "caldo" di un box con la stufetta elettrica che gira a manetta! E tu lì .... Con le tue moto!

Grazie Claudio.

martedì 10 dicembre 2013

Aspettando il 2014...

Ancora una manciata di giorni e poi anche il 2013 sarà consegnato alla storia.

Non che sarà ricordato come un anno strepitoso, questo 2013, almeno dagli italiani. La crisi economica non ha mollato la presa, anzi. La disoccupazione è aumentata, le aziende, piccole, medie e grandi fanno fatica a mantenere la competitività sui mercati, vessate da costi interni al nostro sistema Paese che ne impediscono la concorrenza con le altre aziende europee e mondiali. 

Politicamente, archiviato il governo dei tecnici che ha deluso la maggioranza degli italiani, il 2013 ci ha proposto un governo di larghe intese, di unità nazionale si sarebbe detto una volta, per affrontare uniti le grandi sfide che ci attendono. E poi l’uscita dalla scena politica di Berlusconi e l’ultimo atto del “Porcellum” che di fatto obbligherà finalmente il Parlamento, non delegittimato di diritto, ma sicuramente da un punto di vista politico, a por mano alla riforma della legge elettorale.

Eppure qualcosa di positivo questo 2013 lo lascerà nella politica italiana.

Primo: il movimento dei 5 stelle si è messo finalmente a nudo: entrando con numeri importanti nel Palazzo, ha rivelato tutta la sua debolezza e tutti i suoi limiti. Da forza che poteva essere propulsiva per un cambiamento reale della politica italiana, si è dimostrato essere ancora un movimento di persone politicamente immature, tradendo il desiderio di novità che aveva indotto gli italiani a votarlo. 

Secondo: l’uscita dalla scena politica di Berlusconi ha portato nel centro destra italiano uno stravolgimento di alleanze e la nascita di formazioni politiche che potrebbero portare nel 2014, in occasione delle elezioni politiche per il Parlamento europeo, ad un inedito e vasto fronte anti euro.

Proprio il tema dell’euro è, a nostro giudizio, il nodo fondamentale da affrontare e da studiare per avere le idee chiare sulle politiche da attuare nei prossimi anni per uscire dalla crisi, in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Senza timori reverenziali verso nessuno. Certamente questa non è l’Europa che moltissimi italiani avevano in mente trenta, venti e anche solo dieci anni fa. E del resto la situazione politica non è fluida solo in Italia, se è vero che anche nella grande Germania, dove si è votato per il rinnovo del Bundestag il 22 settembre, ad oggi la Cancelliera Merkel, esponente del partito di maggioranza relativa, non è stata ancora in grado di formare un Governo. Sintomo che la situazione politica non è difficile solo in Italia e gli interessi in gioco sono molteplici e divergenti un po’ ovunque.

Una considerazione la possiamo svolgere sull’azione del Presidente Napolitano, costretto suo malgrado dall’incapacità del Parlamento di trovargli un successore, ad un secondo mandato presidenziale. Se da un lato ha cercato di colmare, con il suo agire, le deficienze attuali della classe politica, dall’altro con l’esperienza del Governo Monti prima e del Governo Letta poi, non ha convinto fino in fondo gli italiani sulle scelte effettuate. Ad uscirne ridimensionata è stata proprio la figura del Presidente della Repubblica e difficile sarà per Napolitano recuperare quella credibilità di cui godeva presso gli italiani ad inizio anno. 

E infine Matteo Renzi, classe 1975, il nuovo politico che avanza, il sindaco di Firenze che finalmente ha conquistato a suon di preferenze, la segreteria del Partito Democratico. Saprà mantenere le promesse fatte in campagna elettorale (quella interna al PD) senza spaccare il partito? Lo scopriremo nel corso del 2014. 

Per ora assistiamo ad un auspicato rinnovamento anagrafico di una parte della classe politica italiana: oltre a Renzi infatti anche la Lega Nord ha eletto il suo nuovo segretario, Matteo Salvini , classe 1973 e il Nuovo Centro Destra, che non ha aderito a Forza Italia, ha come suo leader Angelino Alfano, classe 1970. 

A questo punto speriamo che il 2014 sia veramente un anno di svolta per la politica italiana e che i nuovi attori siano all’altezza delle aspettative. Lo meritiamo noi, lo merita l’Italia.


Matteo Renzi



   

giovedì 5 dicembre 2013

A tu per tu con: Davide Morosi

Oggi a "Tu per tu" incontriamo l'amico Davide Morosi, 44 anni di origine milanese, ha conseguito la laurea in Economia Scienze Bancarie ed Assicurative. La prima esperienza professionale è presso Assicurazioni Generali spa presso la quale lavora fino al 1998. Prosegue la sua attività professionale in altre importanti realtà del settore, italiane ed internazionali, dove ricopre ruoli crescenti in ambito commerciale-marketing e nella formazione delle reti di vendita. Nel 2004 ha pubblicato una breve guida dal titolo "Conoscere le Assicurazioni", insieme alla rivista Espansione. Appassionato della materia previdenziale, da circa un anno svolge attività di formazione manageriale con particolare focus sull'evoluzione del sistema previdenziale italiano e sull'offerta di soluzioni di secondo e terzo pilastro (previdenza complementare).


D.: Non più tardi di quindici giorni fa il Presidente dell'INPS Mastrapasqua ha lanciato un allarme sulla stabilità futura dei conti dell'INPS, subito ridimensionato a "problema tecnico" da parte del Ministro dell'Economia Saccomanni. Davide: come stanno le cose oggi in Italia. Gli italiani possono dormire sonni tranquilli?
R.: Cosa dire, è di Maggio 2013 il primo vero “alert” di Mastrapasqua… Una sorta di “messaggi in codice” alla politica per segnalare una situazione non facile relativa alla gestione del super ente di previdenza pubblica (INPS) chiamato, va ricordato, a garantire prestazioni non solo pensionistiche ma anche altre, più di natura assistenziale (ammortizzatori sociali, maternità, ecc.) con oneri non trascurabili. In pratica, qualche mese fa nelle casse previdenziali pubbliche iniziava a scarseggiare la liquidità. L'allarme lanciato da Antonio Mastrapasqua, presidente dell'Inps, era determinato dal fatto che "il patrimonio netto" rimasto "era sufficiente a sostenere una perdita per non oltre tre esercizi", cioè fino al 2015. Pensioni assicurate, quindi, fino e non oltre il 2015. Tutto ciò in primis a causa della fusione Inpdap-Inps, ovvero l'ente previdenziale dei dipendenti pubblici con la previdenza privata. Una fusione voluta dalla manovra Salva-Italia del 2011 (Governo Monti-Fornero) che non ha cancellato il buco di 23 miliardi di euro, equivalente al debito che lo Stato ha nei confronti dei contributi previdenziali per i suoi dipendenti. Buco che ora grava nelle casse del SuperInps, con il rischio di non riuscir più a pagare le pensioni per i prossimi anni se non verranno fatti interventi a carattere urgente per risanare i conti. Si deve tener conto, inoltre, della perdita patrimoniale dell'Inps, di 10 miliardi, che ha fatto scendere le riserve dell'Inps da 41 miliardi nel 2011 a 15 miliardi nel 2012, quasi il 64% in meno in due anni. Una situazione preoccupante per gli italiani, è la domanda? Mastrapasqua ha recentemente affermato di no, ma alcuni fattori non fanno stare al 100% sereni: la crisi economica del Paese non è ancora terminata e lo sviluppo non riparte (anzi, molte imprese chiudono anche nel 2013), l'occupazione è in calo (il peggior dato a livello generale dal 1977 e drammatica quella giovanile, 18-24 anni, pari ad oltre 41%). Tutto ciò si ripercuote sulla contribuzione che si contrae mentre aumenterà, a breve, il numero di chi matura il diritto alla pensione… Un problema che si può, ovviamente, risolvere senza lasciare pensionati senza assegno mensile. Ma come? Bè, senza dirlo apertamente, attraverso trasferimenti all’INPS dallo Stato centrale che significa, in parole semplici, fiscalità generale: tasse!

D.:Ormai è chiaro a tutti che, gli assegni pubblici (quelli erogati dall'INPS) che riceveremo quando andremo in pensione non copriranno più l'80% dell'ultimo stipendio percepito, ma anzi la copertura si avvicinerà al 50% se non meno. Verrebbe quindi spontaneo pensare ad integrare questo gap con forme alternative di risparmio che, una volta giunto il tempo della pensione, integri quest'ultima. Gli italiani hanno percepito secondo te l'importanza di questo tema?
R.: La situazione descritta è quella corretta. I tassi di sostituzioni attesi (lavoro/pensione) a seguito della riforma Fornero, prevedono per chi lavora e versa contributi all’ente pubblico di previdenza per 40 anni un assegnato molto vicino al 50% dell’ultimo reddito. Bè, va ricordato che oggi e in futuro sarà difficile, rispetto a quanto succedeva in passato, a causa della flessibilità e della precarietà del lavoro, lavorare per 40 anni continuativi senza “periodi” inoccupati. Con risultati negativi ed intuibili in termini pensionistici. Da queste considerazioni nasce pertanto la necessità di approfondire l’argomento, aumentare la consapevolezza della situazione e capire se esistono strumenti adeguati in grado di dare risposte concrete in termini di pensione. La situazione attuale è chiara ma poco promossa nel nostro Paese che risulta essere, in un confronto con i Paesi OCSE, uno degli ultimi nel rapporto tra volumi investiti nella previdenza complementare e PIL. La previdenza complementare, infatti, è stata avviata a metà degli anni ’90 e poi migliorata all’inizio del 2005 con interventi sulla fiscalità e sulla flessibilità ma oggi, nel 2013, dopo quasi 18 anni dalla sua introduzione, è ancora poco utilizzata dai lavoratori italiani perché poco sensibilizzati sull’argomento e molti in possesso di conoscenze molto limite sull’argomento. Di fatto, sono presenti sul mercato interessantissime soluzioni che mirano ad integrare la pensioni pubblica. Esse offrono importanti vantaggi fiscali nelle tre fasi: versamento, accumulo e liquidazione a scadenza. In estrema sintesi, ricordiamo che nella prima fase è prevista la possibilità di dedurre dal reddito personale i versamenti a forme di previdenza complementare (Es: Fondi Pensione Aperti e P.I.P. – Piani individuali Pensionistici) con percentuali che variano dal 23% al 43% annuo fino a 5.164 euro annue come importo massimo versato. Nella fase di accumulo, invece, è stata riservata a queste forme una tassazione molto favorevole sugli interessi annui maturati (capital gain) pari all’11%, facendo entrare queste soluzioni previdenziali tra le migliori sul mercato, in confronto con altri strumenti di risparmio finalizzato. Infine, alla scadenza, è prevista una tassazione agevolata, pari al 15% della somma di tutti i versamenti effettuati fino a 15 anni di permanenza nel fondo pensione con un abbattimento di questa aliquota dello 0,30% annuo per ogni anno di permanenza nel fondo oltre il quindicesimo; ad esempio, un piano previdenziale di questo tipo, dopo 35 anni di versamenti, beneficerà di una tassazione pari al 9% che è decisamente favorevole se si confronta con quanto dedotto nel corso degli anni. 

D.: I più penalizzati in questo periodo di crisi economica sono i giovani che faticano a trovare un lavoro "stabile", ancorché precario, che permetta loro di pensare al futuro. Questa generazione come dovrebbe affrontare, secondo te, il tema previdenziale e pensionistico se non può contare su entrate certe e stabili?
R.: Abbiamo già fatto un accenno ai giovani, i quali, di fatto, sono oggi le persone più penalizzate in termini previdenziali. Le ragioni le ho già indicate nella precedente risposta. Mi limito pertanto a dire che se un genitore o un nonno con un discreto stipendio o una buona pensione (oppure con patrimonio accumulato negli anni) decidesse oggi di “far avviare” una forma di previdenza previdenziali a favore di un figlio o di un nipote in precarie condizioni lavorati o in fase di ricerca di un lavoro, sicuramente farebbe un’azione solo utile, con vantaggi sia di natura fiscale sia di lungo periodo; che come si può immaginare è il migliore ed unico vero alleato nelle scelte di pianificazione previdenziale (più tempo ho a disposizione meglio è!).

D.: Pensare oggi al proprio domani, al proprio futuro pensionistico, magari lontano ancora decenni, può sembrare inutile. Invece è proprio all'inizio dell’ attività lavorativa che si dovrebbe impostare la costruzione di una rendita integrativa personale da affiancare alla pensione pubblica. E' un cambiamento culturale, di mentalità, che gli italiani al momento non hanno ancora acquisito, mentre in altri Paesi europei è diventato lo standard. In questo senso, sono proprio i giovani quelli più bisognosi di integrare da subito la pensione pubblica. Tu cosa consiglieresti ad un giovane di venticinque anni che si affaccia al mondo del lavoro oggi?
R.: Nel nostro Paese, purtroppo, non c’è ancora una cultura previdenziale diffusa. Non ricordo molti corsi scolastici (nelle scuole superiori o all’Università) che consentano di costruirsi nel tempo una conoscenza su questa importante tematica e che aiuti gli individui, soprattutto quelli giovani, a formare una capacità critica per valutare la situazione e poter prendere decisioni per il loro “domani”, molto lontano, come la cosiddetta fase di quiescenza. All’estero questo processo è in corso da decenni, favorito certamente da un livello di Welfare State inferiore al nostro, il quale, tuttavia, oggi sembra aver raggiunto la cima e appare ormai evidente che inizia a scendere e a ridursi. Dare consigli su queste tematiche a chi ha venticinque anni è abbastanza arduo visto che di norma chi si affaccia al lavoro a questa età non ha certo una condizione economica brillante nei primi anni di lavoro. Quello che però mi sento di poter dire ad un giovane è quello di iniziare ad informarsi il prima possibile, attraverso persone competenti, su questa materia. Rimandare nel futuro una scelta, in termini previdenziale significa “spostare semplicemente nel tempo un problema personale” (di 5, 10 o 15 anni) che dopo anni si riproporrà inesorabile con “dimensioni” sempre più elevate; a certe età poi, esempio 50-55 anni, inizia a diventare di difficile risoluzione una scelta previdenziale visti gli impegni nel frattempo assunti sul piano personale (famiglia, figli, indebitamenti ed impegni finanziari, ecc.). Chiedere, informarsi e capire perché un venticinquenne all’estero conosce questa materia più di un italiano e decidere quando poter iniziare a fare scelte di previdenza integrativa (o complementare) è già una grande conquista per un venticinquenne. Molti giovani, approfondendo questi argomenti con attenzione, alla prima occupazione potrebbero da subito destinare il TFR (Trattamento di Fine Rapporto, valore riconosciuto per legge) a forme di previdenza integrativa e sfruttare così i tanti anni a disposizione prima della pensione senza aggiungere, nei primi anni di lavoro, altre quote viste le modeste remunerazioni.

D.: Ultima domanda: quando si parla di forme pensionistiche private, molti si pongono questo quesito: chi mi assicura che tra 40/50 anni la Compagnia di assicurazioni privata cui ho versato ogni mese una quota della mia retribuzione esisterà ancora? In questi anni è stato fatto qualcosa nel mondo delle Assicurazioni per proteggere in totale sicurezza i contributi versati dai clienti?
R.: Non è possibile prevedere il futuro in generale e tanto meno quello che si verificherà tra 40/50 anni al comparto assicurativo. Quello che però mi sento di evidenziare è che le Compagnie di Assicurazioni private sono obbligate, oggi, ad operare secondo criteri molto più stringenti del passato. Sul piano della trasparenza dell’offerta e della confrontabilità dei prodotto, negli ultimi 5-6 anni sono state introdotte importanti novità. Non tutti possono, infatti, vendere polizze o piani di previdenza integrativa ma solo “soggetti” cosiddetti abilitati e iscritti in un apposito Registro (Registro intermediari IVASS) che impone sia precisi requisiti personali, indispensabili per poter iniziare questa attività, sia professionali con l’obbligo della formazione iniziale (di 60 ore) e di quella annuale di aggiornamento (di 30 ore). Un mercato che sta, quindi, lentamente “maturando” a favore del consumatore finale. I clienti oggi possono comprendere sempre meglio quello che decidono di sottoscrivere e, parlando di soluzioni di previdenza integrativa, possono anche interrompere la scelta inziale per trasferire la posizione presso un altro assicuratore. Tutto ciò, ovviamente, senza alcun onere, generando così una concorrenza di un livello professionale sempre più elevato. Non sono in grado di dire cosa accadrà ai risparmi accantonati tra 40/50 anni ma posso affermare che ogni cliente di queste forme previdenziali può controllare ogni anno la sua situazione e, se non pienamente soddisfatto, decidere di cambiare Compagnia. Un ottimo modo, quindi, per tenere sempre sotto controllo le proprie scelte e mettere in concorrenza tra loro, annualmente, i diversi operatori di mercato. In fondo l'INPS richiede oltre 40 anni di impegni rigorosi (accantonamenti obbligatori) senza offrire alcuna "flessibilità" durante il percorso.

Grazie Davide.

lunedì 18 novembre 2013

Italiani e Greci, una faccia una razza?

Italiani e greci, una faccia una razza recitava il ladruncolo Aziz in “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores.

A sentir paragonare la situazione di crisi economica che sta attraversando la nostra amata Italia a quella che ha investito la Grecia, i nostri politici nazionali, di destra, di centro e di sinistra, si arrabbiano, si gonfiano il petto e gridano a squarciagola un sonoro NO! L’Italia non è paragonabile alla Grecia. Ne siamo proprio sicuri? Prendiamo ad esempio l’ambito socio assistenziale sanitario che interessa, trasversalmente, un po’ tutta la fascia medio bassa della popolazione, quello che una volta si diceva il ceto medio. Quello benestante è come sempre un caso a parte.

In Grecia è cosa ormai nota, a seguito dei tagli del Governo alla spesa sanitaria, un terzo dei greci è privo di qualsiasi copertura sanitaria. Anche i farmacisti, che vantano crediti non rimborsati verso lo Stato per oltre un miliardo e trecento milioni di euro, rifiutano di dispensare gratuitamente i farmaci rimborsabili. E in Italia? Certamente non siamo a questo punto, ma anche da noi i tagli alla sanità e all’assistenza sociale incominciano a farsi sentire. 

E allora può capitare che la Regione Lombardia, la regione d’Italia con il PIL più alto delle altre Regioni e con una struttura sanitaria e assistenziale che eroga prestazioni e servizi di alto livello riconosciuti da tutti, approvi la Delibera num. 740 del 27/09/2013 in materia di nuove regole e misure di sostegno per le persone con disabilità gravi e gravissime tra cui sono fatte rientrare anche le persone affette da SLA e da altre malattie del motoneurone. (http://www.handylex.org/regioni/lombardia/norme/r270913.shtml).

Questa Delibera della Regione Lombardia a sua volta recepisce le norme presenti nel Decreto interministeriale del 20/03/2013  firmato in zona cesarini dai Ministri ormai politicamente “scaduti” del Governo Monti che nei fatti, riduce per il 2013, di euro 631.662.000 gli stanziamenti per il Fondo per le non autosufficienze. ( http://www.lavoro.gov.it/Strumenti/normativa/Pages/default.aspx )

E allora, a seguito di questo taglio cospicuo dallo Stato alle Regioni, peraltro rivolto verso cittadini già fortemente svantaggiati nella propria vita quotidiana, come decide di muoversi la Regione Lombardia? 

La Regione Lombardia decide di modificare il precedente piano di intervento e sostegno ai soggetti con SLA. Tali soggetti prima erano suddivisi in quattro scaglioni, per livello di disabilità e per fasce di reddito, e percepivano un contributo variabile da 500 a 2.500 euro a secondo della gravità della disabilità e del reddito percepito. Dal mese di ottobre 2013, anche se molti beneficiari sono stati informati con lettera raccomandata ricevuta solo a novembre, i livelli di disabilità sono soltanto due, i gravi e i gravissimi e i contributi sono “a pioggia” di 800 e di 1.000 euro. Tutti gli altri malati non hanno più diritto ad alcun tipo di contributo.

Peccato che questi fondi servono alle famiglie per mantenere in casa la persona disabile e cercare di fargli avere una vita la più normale possibile. Cosa costerebbe allo Stato gestire in RSA (residenze assistite) queste persone. Le stime dicono circa 400 euro al giorno per persona di sola sistemazione alberghiera.

Infine c’è un aspetto non secondario da considerare. Le strutture capaci di accogliere e gestire malati di SLA ad uno stadio grave o gravissimo della malattia sono pochissime in Lombardia, non parliamo dell’ Italia nel suo complesso.

Se prima un nucleo familiare di un malato gravissimo di SLA, parliamo sempre della Regione Lombardia, poteva arrivare a percepire 2.500 euro al mese (teniamo conto che un malato gravissimo di SLA deve avere almeno due persone che ruotano in casa per fornirgli assistenza h. 24) ora al massimo ne potrà ricevere 1.000 euro. E questo cosa potrebbe comportare? Potrebbe comportare che un malato che non voglia pesare economicamente sulle spalle della sua famiglia ben sapendo che questa non è in grado di sostenere le spese per la gestione della sua gravissima disabilità (parliamo di persone sottoposte a tracheotomia e ad alimentazione tramite sondino gastrico) decida di non farsi operare e di lasciarsi morire.

Non stiamo parlando di casi rari, ormai purtroppo queste malattie, come la SLA, si stanno diffondendo tra la popolazione e non si possono più considerare malattie rare. 

Ci rendiamo conto che la Regione Lombardia è costretta a fare i conti con gli stanziamenti statali che ogni anno sono sempre inferiori, però forse un più attento esame della situazione riguardante l’assistenza a questi malati gravemente disabili, e mi riferisco in particolar modo ai malati di SLA, potrebbe portare ad una migliore ridistribuzione delle risorse disponibili.

Resta a monte il fatto che tagliare fondi importanti, ma risibili se paragonati al bilancio dello Stato, a cittadini già fortemente segnati a causa della malattia che li ha colpiti, non per colpa loro, è un’operazione di vigliaccheria sociale che nessun partito politico, di destra, di centro o di sinistra, dovrebbe avere il coraggio di approvare. 

Italiani e greci, una faccia una razza?

Per ora forse no, ma la situazione è in triste evoluzione.



sabato 9 novembre 2013

La Grande Mela

Sabato sera alzo gli occhi dallo schermo del portatile poggiato sulla scrivania di casa, colpito da una sensazione di vuoto, attorno a me il silenzio. Mi guardo intorno: la mia famiglia, in via del tutto eccezionale, era riunita nella medesima stanza, la sala.

Mia figlia stava sorridendo sotto le cuffie mentre guardava un video su YouTube al suo MacBook. Mio figlio stava chiacchierando su WhatsApp con i suoi amici utilizzando il suo iPhone, mentre mia moglie leggeva sul suo iPad l'ultimo post pubblicato dalla sua amica giapponese sul suo blog.

Eravamo tutti e quattro a meno di due metri l'uno dall'altro e contemporaneamente tutti noi eravamo lontani chilometri, o migliaia di chilometri, dai nostri interlocutori digitali.

Ma la cosa che più mi ha colpito quel sabato sera è stato il silenzio.

In sala, il grande fratello che da 47 anni mi tiene discretamente compagnia tutte le sere, la televisione, era spenta: nessuno aveva sentito la necessita' di accenderla.

Ora, attenzione: il sito di YouTube nasce nel 2005; il primo MacBook appare nel 2006; il primo modello di iPhone è del 2007 mentre il primo iPad viene presentato nl 2010. L’App di WhatsApp si è diffusa a partire dal 2012.

Non sono passati dieci anni dalla nascita di YouTube e dall’avvento di nuovi prodotti tecnologici che, tra l’altro, non sono neanche stati pensati come alternativi alla televisione, che la regina delle nostre case, la televisione appunto, il sabato sera, la sua sera per definizione, è rimasta muta.

Questi cambiamenti nello stile di vita di una famiglia, se consideriamo che vanno ad incidere su abitudini ormai consolidate da decenni e quindi in teoria molto lente da modificare, si possono considerare eccezionali dal punto di vista della velocità con cui si stanno verificando.

Ma se la società italiana, nel suo livello primario, singola persona, famiglia, si è dimostrata in questi anni molto sensibile e favorevole in generale al cambiamento dei propri stili di vita, nel suo livello secondario, in teoria più evoluto, mostra invece caratteristiche ostili al cambiamento. 

L’Italia del 2013 è rimasta l’Italia delle corporazioni, non quelle esistenti al tempo del fascismo, ma quelle esistenti nel Medio Evo: Magistrati, Farmacisti, Giornalisti, Avvocati, Medici, Commercialisti, siano essi di Destra o di Sinistra.

Mi fermo, non perché siano terminate le categorie ostili al cambiamento del nostro Paese, mi fermo per non annoiare il lettore con un elenco infinito.

Solo una considerazione: nell’elenco non compaiono i Politici per un solo motivo. Spetterebbe alla politica proporre le soluzioni per creare, oggi, le basi per una società migliore domani, non la migliore in assoluto, ma la migliore possibile partendo dalla situazione attuale. E non sarebbe poco…

Purtroppo, ogni volta che i politici tentano di portare avanti una riforma che, in qualche modo, tocca gli interessi di una categoria ormai consolidata da tempo nel suo “potere” politico ed economico, ecco che la Politica fa un passo indietro e tutto si blocca. La Riforma non passa.

Cane non mangia cane, dice il proverbio e così il nostro Paese precipita nelle classifiche mondiali dalle prime posizioni a quelle inferiori, in qualsiasi settore preso in esame.

Consoliamoci con l’ultimo modello di iPhone, almeno quello è una garanzia, lo usano tutti, per ora nessuno si sogna di boicottare la Grande Mela!




lunedì 28 ottobre 2013

A tu per tu con: Maurizio Gemelli

Quest'oggi incontriamo Maurizio Gemelli, Segretario Territoriale FIBA/CISL di Milano Metropoli e Responsabile FIBA/CISL nel Gruppo Deutsche Bank. Con lui vogliamo approfondire le ragioni del prossimo sciopero nazionale dei bancari, indetto da tutte le Organizzazioni Sindacali per il prossimo 31 ottobre 2013.

D.: Maurizio, dopo anni di pax sindacale tra banchieri e bancari, il prossimo 31 ottobre è stato indetto da tutte le sigle sindacali dei bancari uno sciopero generale. Ci puoi brevemente spiegare i motivi della rottura di questa pax e le ragioni dello sciopero?
R.: Le ragioni dello sciopero generale sono da ricercare tutte nella decisione di ABI di disdettare il Contratto Nazionale di categoria (addirittura dieci mesi prima della sua scadenza) e, ancor più grave, di non riconoscere più l’ultrattività del vigente Contratto fino al suo rinnovo. In pratica, se passasse l’impostazione di ABI, la categoria al 1 luglio 2014 rischierebbe di trovarsi senza il suo Contratto Collettivo. Prendendo spunto dalla tua definizione di “pax”, possiamo dire che ABI ha deciso di buttare all’aria un periodo di concertazione durato quasi un quindicennio.

D.: Ancora oggi è opinione abbastanza corrente che la categoria dei bancari goda di privilegi "esagerati" e "non totalmente meritati" rispetto alla situazione attuale del mercato del lavoro. La stessa ABI lamenta negli incontri con le sigle sindacali che il personale delle banche è poco incline al cambiamento, culturalmente inadeguato ad affrontare le sfide del futuro perché troppo anziano. Che opinione ha il sindacato in merito?
R.: Evidentemente la nostra opinione è diametralmente opposta. E non certo per spirito di parte ma per una evidente somma di considerazioni. Con le riorganizzazioni dell’ultimo quindicennio la categoria si è profondamente rinnovata con l’ingresso di colleghi giovani, decisamente aperti alle novità e pronti a mettersi in gioco. E posso senz’altro confermare che questa capacità di essere pronti al cambiamento e al nuovo modo di fare banca è comune anche ai colleghi meno giovani che hanno dimostrato e dimostrano tutti i giorni di sapersi confrontare con i cambiamenti. Semmai il problema anagrafico mi pare sussista nei vertici delle Banche che contano esponenti non certo giovani…anzi. Quanto al fatto che i bancari siano una categoria di privilegiati, beh…evidentemente si tratta di una convinzione basata su una analisi vecchia almeno venti anni. Dal 1991 la nostra categoria è soggetta all’applicazione della Legge sui licenziamenti collettivi che fanno apparire decisamente “giurassici” i tempi del cosiddetto “posto in banca sicuro come in cassaforte”. E anche le cifre che appaiono sui media sulle retribuzioni medie del settore appaiono quantomeno “omissive” sul fatto che le somme che si leggono includono le retribuzioni degli altri Dirigenti che, come noto, percepiscono emolumenti stratosferici.

Antonio Patuelli, Presidente ABI
D.: Nonostante la notizia della disdetta del contratto di categoria da parte dell'ABI sia stata data da tutti gli organi di informazione, si ha l'impressione che pochi abbiano ancora colto come la soluzione di questa vertenza avrà ripercussioni vitali sul futuro che la nostra economia, la nostra crescita del PIL potrà avere o non avere nei prossimi mesi. Perchè è importante comprendere che dalla soluzione che daremo a questa questione, dipenderà in parte il benessere futuro dei lavoratori italiani, delle famiglie italiane? 
R.: Sono d’accordo su quanto dici in merito al fatto che non si colga a sufficienza l’impatto di questa situazione. Mi pare che non venga adeguatamente messo in rilievo (parlo dei media) il pesante impatto che le scelte delle Banche e, in questo caso, di ABI scaricano sul Paese. Basti guardare quanto incidono sulla nostra economia i mancati aiuti agli investimenti produttivi e alle aziende da parte del sistema creditizio che, anche dopo l’inizio della crisi, continua a percorrere un modello che privilegia l’aspetto squisitamente finanziario (e a volte speculativo) a discapito di un modello “retail” che, soprattutto in Italia, rappresenta la base per qualsiasi ipotesi di sviluppo.

D.: In questi anni di crisi economica le banche sono state messe sotto accusa da più parti. Alcuni pensano che sia stato troppo oneroso per la collettività salvare le banche in crisi e che si doveva lasciar fare al mercato. Altri invece ritengono che il sistema economico non avrebbe retto al fallimento delle banche e che queste andavano salvate ad ogni costo. Come giudica il sindacato quello che è stato fatto in questi anni rispetto al salvataggio delle banche e come si immagina la banca tra dieci / quindici anni?
R.: L’intervento pubblico per il salvataggio delle banche (intervento registrato pressoché in tutto il mondo) credo sia stato certamente oneroso ma in un certo senso inevitabile. La profonda connessione che lega il sistema creditizio al tessuto produttivo è innegabile e pertanto sarebbe stato disastroso “girare la faccia dall’altra parte”. Detto questo, come Sindacato siamo profondamente contrari ad aiuti che rischiano di perpetuare un modo di fare banca che non sostiene il Paese e il suo sviluppo. Per questo noi sosteniamo un progetto che rimetta al centro il ruolo propulsivo delle Banche come elemento di sviluppo economico del Paese e del territorio. Noi immaginiamo un modello di Banca che coniughi l’attenzione all’innovazione e alle tecnologie “on line” con un confermato radicamento sul territorio a sostegno dell’economia e dello sviluppo. Non si può immaginare una banca che non faccia quello che è per definizione il “suo mestiere” e cioè raccogliere risparmio ed erogare credito. 
Il Presidente BCE Mario Draghi interviene all'Assemblea ABI

D.: Un'ultima battuta finale sulla disdetta del contratto da parte dell'ABI: in epoca di larghe intese (politiche - Governo Letta insegna) come giudichi questa linea di rottura portata avanti dai banchieri che interrompe una lunga serie di anni dove la concertazione sindacato - ABI aveva prodotto concreti risultati per esempio nella gestione degli esuberi senza gravare sulla collettività (leggi cassa integrazione)?
R.: Come dicevo prima, ABI ha scelto di gettare alle ortiche una esperienza di confronto, anche duro, ma sempre ispirato alla ricerca di soluzioni condivise. E questo vale ancora di più dal punto di vista delle garanzie occupazionali e della gestione degli eventuali esuberi. Il nostro Fondo di Solidarietà è stato in questo senso “centrale” nel governo delle tensioni occupazionali.

D.: Sei fiducioso per il futuro?
R.: Non posso non esserlo. Anche in questo momento di crisi e di difficoltà non vedo altra soluzione se non quella di andare tutti nella stessa direzione per uscire da questa situazione tutti rafforzati. Le banche devono riprendere a crescere e a fare credito, il Paese deve finalmente imboccare la strada della ripresa e i lavoratori devono essere parte centrale di questo progetto. Il Sindacato ci crede e la sfida che avanziamo alle banche è di crederci insieme, senza strappi o scelte di contrapposizione. Lo sciopero del 31 sta a significare proprio questo: la risposta conflittuale a chi questo conflitto lo vuole (Abi). Ma dopo il 31 ci aspettiamo che le banche cambino registro!

Grazie Maurizio.



venerdì 18 ottobre 2013

Rush

Rush, USA - Germania, 2013, Regia di Ron Howard


Recensione di Alberto Bordin


Ogni film incarna un’emozione. La digitalizza, nei suoi colori, nei suoi suoni, e nei suoi tempi. Non nelle sue parole, sia chiaro, perché il dialogo è la freccia di cui si arma l’arco del teatro ma non quello del cinema. Ed è per questo che forse i dialoghi artificiosi e le espressioni truffaldine di Rush non danno troppa noia, perché la vera sostanza di questo film sta da un’altra parte. Vibra del rombo dei motori, si anima del montaggio frenetico, si riempie dei colori saturi ma sempre pittoreschi, e s’infiamma di una colonna sonora dai tratti epici; è l’adrenalina l’emozione che anima la nuova pellicola di Ron Howard.

Il thrilling in sala, quando il film è la trasposizione di una storia vera, è una sensazione da scoprire con ammirazione: significa che lo sceneggiatore e il regista hanno saputo accattivarti, rimanendo tuttavia fedeli nella messa in scena di determinati avvenimenti; ma quando la storia e i suoi accadimenti principali sono pure noti al pubblico che quindi non si aspetta più sorprese, allora va riconosciuto un vero genio nei narratori che hanno saputo sorprenderti. Perché quella composizione sottile di colori, suoni e tempi è stata in grado di farti sperare quello che era già certo e temere quello che era risaputo. È quella tensione che film come “Operazione Valchiria” hanno saputo solo sfiorare, quando per un attimo nelle sale abbiamo incrociato le dita domandandoci se Hitler fosse veramente morto. E così, la battaglia senza esclusione di colpi tra il pilota inglese James Hunt e l’austriaco Niki Lauda, già nota ai più e messa nuovamente a nudo fin nel trailer per gli spettatori ignari, non si risparmia in nessuna ovvietà, raccontandoci invece con il candore dell’inedito l’avventura che tutti avremmo voluto conoscere a nuovo.

E tanta è la sincerità drammatica – forse non fino in fondo onesta ma non per questo falsa –: nell’autolesionismo di Hunt e il suo rifiuto per una vita che non sia portata al limite, nella caparbietà grottesca di Lauda la cui presunzione spegne la fiamma di qualunque empatia nei suoi riguardi, e poi nell’amore con le donne e nel loro disprezzo, e le menomazioni fisiche e le ancor più brutali cure ospedaliere, e gli insulti messi al tavolo con i giornalisti, e una strana lealtà che nasce pure nella violenza …

Forse manca un finale degno di chiamarsi tale, con l’emozione che va scemando da oltre dieci minuti, in un’ultima corsa in cui sembra giocarsi tutto e niente. Ma rimane innegabile la forza di quell’adrenalina che scorre nelle vene reclamando il ruolo di vera protagonista e sostanza della pellicola perché finalmente al suo posto, in un film che finalmente la merita rendendola meritevole: del nostro entusiasmo e della nostra ingordigia, meritevole di essere assaporata e gustata e di spegnersi senza chiedere altro, senza dover rimandare ad altro e lasciarci a bocca asciutta con un “e dunque?” sulle labbra. Perché è lei la signora e sovrana che ci offre Howard, la musa divina cui aspiriamo e che cantiamo, è lei che abbiamo visto sulle piste bagnate, nelle corse frenetiche, e negli occhi terrorizzati dalla vittoria di due campioni di Formula 1.


mercoledì 16 ottobre 2013

Lampedusa and the power of TV

Translation of the post of 13 October



In 1976 the great Sidney Lumet gives us one of his masterpieces: Network, a film about the power of mass media and television in particular. In 1977 to win four Academy Awards, Golden Globe and other prestigious awards. Unfortunately, the Italian television, taken as a whole, public and private, does not like to transmit frequently, and rightly so, given that the dock is she, television. I suggest you see him, you will find the prophetic character of the film that seems to tell a contemporary story and undated 1976.

Why I came up with the movie? Simple, reflecting on the case Lampedusa.

What is happening in Lampedusa in recent weeks , so well documented equipped teams of journalists and commentators , is done for twenty years. You read that right : twenty years. And ' the nineties that poor bastards leave their homes and their loved ones , their family ties and try their luck in the countries most " rich" who can offer , especially to young people, a better future. From what these young people are fleeing ? From Poverty , concrete, real , physical , but also the poverty of expectations , opportunities, choices. Fleeing war , the brutality of the war that in some countries, see Eritrea and Somalia , for example , lasts for twenty years. They flee from slavery physical and moral that in some countries prevents the normal course of a life that can be defined civil . They run from national governments for decades , ever since they got the end of colonialism , have been replaced occupants to European leaders , continuing to harass the people as in the past . They run towards the new world, attractive, appealing that satellite television shows them while they are sitting in a dusty bar for a beer because there is not much else to do in their city.

They face thousands of miles by any means of transport to reach the shores of the Mare Nostrum, which is though to everyone, not just Nostrum, and here, finding no other means, I repeat, not finding ferries or cruise ships, they rely on men without scruples that take advantage of their desire to change their lives.

For many of these, the most unfortunate (but I'm not sure), life will end in the open sea, for others, the lucky (but I'm not sure) on the roadside of an Italian port. And here I stop.

Is the immense pain they cause in every heart these journeys of hope. And 'perhaps a crime to be born in Somalia, Eritrea, Syria? What sins must serve a child from birth Egyptian, a Libyan boy or baby Sudan?

But having said that, these trips take place for over twenty years, because television is dealing only at certain times, creating emotional surges, and then, after the storm, everything goes back into oblivion? Of course a one year old child drowned at sea along with his mom makes us sick, especially if they make us see on TV at dinner time. But how many children die in Africa for measles? One child every minute (for information, visit: http://www.measlesrubellainitiative.org/). Moreover, many children in Africa die before the age of one year of life for malnutrition? Million, but their young faces there are shown on television at lunchtime, because it would disturb our tables.

Why television does not tell us that wars from which escape those poor bastards are fought with weapons manufactured and sold in large part by European industries and Western ? But there is an embargo ! European governments would respond immediately , our weapons do not end up in the hands of the rebels !

Hypocrisy, is simulation of virtue to deceive . This is the word that I have heard uttered by politicians these days, left-wing politicians , but also to the right. In fact it seems to me the right word. But the first concerns the hypocrisy of television pundits , political figures , always the same , that disdain for what is happening and that they do nothing to explain why these things happen and what should be done because it does not happen again : for example, the peace Eritrea and Somalia, peace in Syria and cooperate with all the governments of North Africa to implement economic development plans in support of those nations .

Only in this way will remain young Africans to live in their country of origin because they will have the opportunity to build their lives in peace , as it would be fair to happen for every child born in every corner of the earth.

And ' the time of the child Jesus that the poor bastards are forced to flee because of the lust for power that dwells in the hearts of men. When the television will show us the only way to save the island of Lampedusa and the hopes of thousands of young Africans?

domenica 13 ottobre 2013

Lampedusa e il potere della TV

Nel 1976 il grande Sidney Lumet ci regala uno dei suoi capolavori: Quinto potere, un film sul potere dei mass media e della televisione in particolare. Nel 1977 vincerà quattro Oscar, il Golden Globe e altri prestigiosi premi. Purtroppo la televisione italiana, presa nel suo insieme, pubblica e privata, non ama trasmetterlo frequentemente, e a ragione, visto che sul banco degli imputati c’è proprio lei, la televisione. Vi suggerisco di rivederlo, vi accorgerete del carattere profetico della pellicola che sembra raccontare una storia contemporanea e non datata 1976.

Perché mi è venuto in mente il film? Semplice, riflettendo sul caso Lampedusa.

Quello che sta accadendo in queste settimane a Lampedusa, così ben documentato da squadre attrezzate di giornalisti e commentatori, avviene da venti anni. Avete letto bene: venti anni. E’ dagli anni novanta che poveri cristi lasciano le proprie case e i propri affetti, i propri legami parentali e tentano la sorte in Paesi più “ricchi” che possono offrire, soprattutto ai giovani, un futuro migliore. Da cosa fuggono questi giovani? Dalla povertà, concreta, reale, fisica, ma anche dalla povertà di aspettative, di opportunità, di scelte. Fuggono dalla guerra, dalla brutalità della guerra che in alcuni Paesi, vedi Eritrea e Somalia per esempio, dura da venti anni. Fuggono dalla schiavitù fisica e morale che in alcuni Paesi impedisce il normale svolgersi di una vita che si possa definire civile. Fuggono da Governi nazionali che per decenni, da quando hanno ottenuto la fine del Colonialismo, si sono sostituiti ai governanti europei occupanti, continuando a vessare il popolo come accadeva in passato. Corrono verso il mondo nuovo, attraente, accattivante che la televisione satellitare mostra loro, mentre sono seduti in un bar polveroso a bere una birra perché non c’è molto altro da fare nella loro città. 

Affrontano migliaia di chilometri con ogni mezzo di locomozione per arrivare sulle rive del Mare Nostrum, che è però di tutti, non solo Nostrum, e qui, non trovando altri mezzi, ripeto, non trovando traghetti o navi da crociera, si affidano a uomini senza scrupoli che sfruttano la loro voglia di cambiare vita. 

Per molti di questi, i più sfortunati (ma non ne sono sicuro), la vita terminerà in mare aperto, per altri, i più fortunati (ma non ne sono sicuro) sulla banchina di un porto italiano. E qui mi fermo.

Immenso è il dolore che provocano in ogni cuore questi viaggi della speranza. E’ forse un delitto essere nati in Somalia, in Eritrea, in Siria? Quali colpe deve scontare dalla nascita un bambino egiziano, un ragazzo libico o un neonato sudanese? 

Ma detto ciò, questi viaggi avvengono da oltre venti anni, perché la televisione se ne occupa solo in determinati momenti, creando ondate emotive, e poi, passata la tempesta, tutto torna nel dimenticatoio? Certo che un bambino di un anno annegato in mare aperto insieme alla sua mamma ci fa star male, soprattutto se ce lo fanno vedere in TV all’ora di cena. Ma quanti bambini muoiono in Africa per il morbillo? Un bambino ogni minuto (per informazioni consultate il sito: http://www.measlesrubellainitiative.org/) . Di più, quanti bambini muoiono in Africa prima di aver compiuto un anno di vita per la malnutrizione? Milioni, ma i loro visini non ci vengono mostrati in televisione all’ora di pranzo, perché ciò disturberebbe le nostre tavole. 

Perché la televisione non ci spiega che le guerre da cui scappano questi poveri cristi sono combattute con armi prodotte e vendute in gran parte da industrie europee ed occidentali? Ma c’è l’embargo! risponderebbero subito i Governi europei, le nostre armi non finiscono in mano ai ribelli! 

Ipocrisia, cioè simulazione di virtù allo scopo di ingannare. Questa è la parola che ho più sentito pronunciare dai politici in questi giorni, politici di sinistra, ma anche di destra. In effetti mi sembra la parola giusta. Ma la prima ipocrisia riguarda i soloni della televisione, i personaggi politici, sempre gli stessi, che si sdegnano per quanto sta accadendo e che non fanno nulla per spiegare perché queste cose accadono e cosa bisognerebbe fare perché non accadano più: per esempio la pace in Eritrea e Somalia, la pace in Siria e cooperare con tutti i Governi del Nord Africa per mettere in atto piani di sviluppo economico a sostegno di quelle Nazioni. 

Solo così i giovani africani resteranno a vivere nel loro Paese di origine perché avranno l’opportunità di costruirsi la propria vita in santa pace, come sarebbe giusto che avvenisse per ogni bambino nato in ogni angolo della terra. 

E’ dai tempi del bambino Gesù che i poveri cristi sono costretti a scappare a causa della sete di potere che alberga nel cuore degli uomini. Quando la televisione ci mostrerà l’unica via per salvare l’isola di Lampedusa e le speranze di migliaia di giovani africani?



venerdì 4 ottobre 2013

The last seven days

Translation of the post of 3 October


It's not 'easy to describe what happened in the Italian political scene for the past seven days. It is not easy to explain to a foreigner what he is capable politician Italian.

The Government of Enrico Letta, for five months, that is, from its inception, seen by all political analysts in constant danger of implosion, has gone from a death foretold a sudden and unexpected resurrection.

Silvio Berlusconi's party that he founded, controlled and directed for twenty years Forza Italy, former People of Freedom, the former Forza Italy, was split in half on a decision taken by its charismatic leader: never happened!

Political forces, for five months in opposition, they were ready to vote confidence in the government Letta and then at the last moment are displaced by the change of line Berlusconi and parliamentarians of the Republic who resigned his resignation from elected office in the hands of their Head group (never happened).

Ministers of the Republic who, at the request of its political leader, resign resign without any political motivation and the next day they did state that only a sense of duty towards the charismatic head of the party, but without personal conviction. Never happened!

All this has happened under the eyes of the past seven days, while the real country continued its run on the siding where it was stuck for years now. The real problem is figuring out how much it is along this track before the locomotive is touching the buffers.

He's right this time Beppe Grillo, when he says that the real sick today is the Italian people bearing the unbearable by a political class that has been elected to solve people's problems and not to solve the problems of a single person, or a political faction or political idea of ​​the sick, which looks to the special interest and the Common Good.

We can not relay a Blind faith in politics and do not believe that it derives from the Salvation for man, would not even be correct to have these expectations. We expect, however, that politicians make policy taking up our gaze towards the sky, and not looking down, facing your belly button.

We live in an era, if you will, for us advantageous for the opportunity given to us to start from scratch , think back to new life styles , new attitudes shared moral , new pacts between citizens to build a civilized life suited to our new world / way of being in a society that is no longer the output from the Second world War.

Vaclav Havel , in his book, The Power of the Powerless , written in 1978 , describes the situation so well that he was living his people in his homeland : " the authority of the heads should flow from their personality put to the test in their environment, and not by their hierarchical position , they should have a great personal credit on which to base their authority. From here the only way out of the classic impotence of traditional democratic organizations , which often appear to be based more on mutual distrust on trust, more sull'irresponsabilità on collective responsibility ... "

Let us hope that this short circuit of reason and politics, we have witnessed in recent days, something new is born, the body takes the idea that it might be worth groped to reform our democratic institutions such that, for better or for worse, are not the only bulwark to a drift moral and civil that would lead straight to the end of the siding.

Expect that new leaders will come forward and new models of organization of civil life there are proposed!

giovedì 3 ottobre 2013

Gli ultimi sette giorni

Non e' semplice descrivere quello che è successo nel panorama politico italiano negli ultimi sette giorni. Non è facile spiegare ad uno straniero di cosa è capace il politico italiano.

Il Governo di Enrico Letta, da cinque mesi, cioè dalla sua nascita, visto da tutti gli analisti politici in costante pericolo di implosione, è passato da una morte annunciata ad una resurrezione imprevista e improvvisa.

Il partito che Silvio Berlusconi ha fondato, controllato e diretto per venti anni, Forza Italia, ex Popolo della Libertà, ex Forza Italia, si è spaccato a metà su una decisione presa dal suo leader carismatico: mai successo!

Forze politiche, da cinque mesi all’opposizione, erano pronte a votare la fiducia al Governo Letta e poi all’ultimo momento vengono spiazzate dal cambiamento di linea di Berlusconi e parlamentari della Repubblica che rassegnano le proprie dimissioni dalla carica elettiva nelle mani del proprio Capo Gruppo (mai successo).

Ministri della Repubblica che, su richiesta del proprio leader politico, rassegnano le dimissioni senza alcuna motivazione politica e il giorno dopo dichiarano che l’hanno fatto solo per senso del dovere nei confronti del Capo carismatico del partito, ma senza convinzione personale. Mai successo!

Tutto questo ci è capitato sotto gli occhi in questi ultimi sette giorni, mentre il Paese reale proseguiva la sua corsa sul binario morto in cui si è infilato ormai da anni. Il vero problema è capire quanto ancora è lungo questo binario prima che la locomotiva arrivi a toccare i respingenti.

Ha ragione questa volta Beppe Grillo, quando dice che il vero malato oggi è il popolo italiano che sopporta l’insopportabile da una classe politica che è stata eletta per risolvere i problemi della gente e non per risolvere i problemi di una persona sola, o di una fazione politica o di un’idea della politica malata, che guarda all’interesse particolare e non al Bene Comune. 

Noi non riponiamo nella politica una Fede cieca e non crediamo che da essa derivi la Salvezza per l’uomo, non sarebbe neanche corretto avere tali aspettative. Noi ci aspettiamo però dai politici che facciano politica tenendo alto lo sguardo, verso il cielo, e non guardando verso il basso, rivolti verso il proprio ombelico.

Viviamo in un’epoca, se vogliamo, per noi vantaggiosa, per la possibilità che ci è data di ricominciare da zero, ripensare a nuovi stili di vita, nuovi atteggiamenti morali condivisi, nuovi patti tra cittadini per costruire un vivere civile adatto al nostro nuovo mondo / modo di essere in una società che non è più quella uscita dalla Seconda Guerra mondiale.

Vaclav Havel, nel suo libro Il Potere dei senza potere, scritto nel 1978, descrive così bene la situazione che stava vivendo il suo popolo nella sua terra: “l’autorità dei capi dovrebbe scaturire dalla loro personalità messa alla prova nel loro ambiente, e non dalla loro posizione gerarchica; essi dovrebbero avere un grande credito personale sul quale fondare la loro autorità. Solo da qui parte la via per uscire dalla classica impotenza delle organizzazioni democratiche tradizionali che molte volte sembrano fondate più sulla reciproca sfiducia che sulla fiducia, più sull’irresponsabilità collettiva che sulla responsabilità…”

Auguriamoci che da questo corto circuito della ragione e della politica, cui abbiamo assistito in questi ultimi giorni, nasca qualcosa di nuovo, prenda corpo l’idea che forse vale la pena tentare di riformare queste nostre Istituzioni democratiche che, nel bene e nel male, sono comunque l’unico baluardo ad una deriva morale e civile che ci porterebbe dritti verso la fine del binario morto. 

Aspettiamo che nuovi leaders si facciano avanti e nuovi modelli di organizzazione della vita civile ci vengano proposti!



mercoledì 25 settembre 2013

Quaquaraquà

Mancano le parole per esprimere l’ennesima delusione che gli italiani che hanno a cuore il Bel Paese stanno provando se pensano al caso Telecom. 

Finale peraltro annunciato, già scritto nel 1997 quando venne effettuata la peggiore delle privatizzazioni possibili di un asset strategico della Nazione. Lo scopo di quell’operazione, più o meno dichiarato, era quello di far cassa. In vista dell’entrata nell’euro quei soldi servirono al Tesoro per far quadrare un po’ i conti. Entrarono nelle casse dello Stato circa 26.000 miliardi di vecchie lire. Presidente del Consiglio in carica al tempo dell’operazione: Romano Prodi, Presidente della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro.

Senza socio forte di riferimento però, la public company resistette poco: nel 1999 una nuova classe di imprenditori italiani, definita poi da alcuni la razza padana, con un’Opa lanciata dalla Olivetti di Roberto Colaninno del valore di 102 mila miliardi di lire (in numero 102.000.000.000.000) prese il controllo dell’azienda. Presidente del Consiglio in carica: Massimo D’Alema che ha pubblicamente difeso ancora oggi l’operazione di Colaninno ed ha fatto bene a difenderla, visto che è avvenuta sotto il suo Governo. 

Da qui ha origine la voragine di debiti che Telecom si è trascinata in bilancio sino ad ora, perché la gran parte di quei 102 mila miliardi di lire serviti per lanciare l’Opa, li hanno messi sul piatto le Banche, non gli imprenditori che invece di loro hanno messo sul piatto la visione imprenditoriale, il Business Plan, la Mission. 

Meno male, potrebbe pensare qualcuno, almeno la razza padana aveva una visione! Invece, quando Telecom era in mano pubblica, il Tesoro non aveva una visione sull’azienda. 

Purtroppo per Telecom, la visone imprenditoriale di Colaninno e della razza padana termina già nel 2003, Presidente del Consiglio Berlusconi, Presidente della Repubblica Ciampi, quando gli imprenditori si lasciano tentare dall’offerta di Tronchetti – Benetton & C. che rilevano Telecom portando nel gruppo di Telecomunicazioni numero uno in Italia e che si stava diffondendo nel mondo, una new vision. I fondi per l’operazione anche in questo caso arrivano dalle Banche e quindi il debito di Telecom rimane a Telecom, come è giusto che sia, del resto! 

Nel 2005, Presidente del Consiglio Berlusconi, viene deciso dai soci l’incorporazione di TIM in Telecom Italia (seconda Opa), nel 2006, Presidente del Consiglio Prodi, venne proposto dai medesimi soci lo scorporo di Tim da Telecom Italia, ma sfortunatamente questa volta l’Assemblea bocciò questa nuova visione e il Presidente Tronchetti si dimise, a torto o a ragione, incompreso. 

Nel 2007, Presidente del Consiglio Prodi, un gruppo di telecomunicazioni che in Spagna aveva avuto più o meno la medesima dinamica di sviluppo di Telecom, Telefonica, acquisisce il controllo di minoranza della Telecom che era stata di Tronchetti & C. e arriviamo così al nostro oggi. 

L’enorme debito che la prima Opa (quella di Colaninno) aveva generato in Telecom ha per tutti questi anni impedito di fatto alla società di crescere e svilupparsi.

Dopo cinque anni di crisi economica, il risultato di questa miope visione, che è stata sotto gli occhi di tutti per tutti questi anni, è che oggi, il gruppo spagnolo, peraltro altrettanto acciaccato finanziariamente, per una manciata di euro acquisisce il controllo di uno degli ultimi asset industriali, e strategici, rimasti al nostro Bel Paese.

Possiamo trarre qualche considerazione dal caso Telecom?

Crediamo di si.

In Italia manca una classe di capitalisti disposti ad investire capitali che, se ci sono, evidentemente non sono investiti in Italia. Manca una classe di politici, a Destra come a Sinistra, che abbia una visione su questo Paese. Prova ne è che la storia Telecom sembra seguire il corso dei cambiamenti alla Presidenza del Consiglio: cambiava il Premier e mutava la compagine societaria in Telecom.

In Italia sino ad oggi sono state le Banche ad agire come capitalisti e imprenditori. La crisi economica e i bassi tassi d’interesse di questi anni hanno però messo a dura prova anche i conti delle Banche, e soprattutto la nuova disciplina di Basilea non permette più manovre border line sui bilanci. Pertanto ora tutte le Banche cercano di dismettere le partecipazioni acquisite in passato e considerate ormai non più strategiche (vedi Telecom). I tempi cambiano.

E non si può certo incolpare una Banca italiana perché vende una sua partecipazione ad un gruppo straniero. Il Governo ben conosce la situazione Telecom e il problema riguardante la rete fissa e sino ad ora non se ne è mai interessato. E se ne deve far carico una Banca?

La verità è che dal caso Telecom riceviamo l’ennesima delusione dalla nostra classe dirigente, imprenditoriale e politica. Il tanto sbandierato e osannato periodo delle privatizzazioni non poteva concludersi nel modo peggiore, con la fine annunciata, perché male impostata dall’origine, della madre di tutte le privatizzazioni, quella della Telecom Italia nata nel 1925 come società Telefonica Interregionale Piemontese e Lombarda. 

Non sappiamo se questo Governo, che basa la propria forza sulle debolezze interne ai tre partiti che lo sostengono, abbia la volontà e la forza per provvedere allo scorporo della rete fissa per salvaguardare almeno la parte intelligence italiana. Ce lo auguriamo di cuore. 

Ora è il momento che si metta in azione la Politica, quella fatta di gesti concreti, che negli ultimi cinque anni ha brillato per la sua assenza. Forse perché aveva già intuito nel 2007, questa volta in anticipo perché interessata in prima persona, che i tempi d’oro delle Opa erano finiti?

Adiós Telecom Italia!