Skyfall , Regno Unito - USA, 2012 - Regia di Sam Mendes
Recensione di Alberto Bordin
Gli
anni si accumulano sulle spalle di tutti, uomini comuni e fuori dall’ordine,
droghieri e agenti segreti. E il nostro celebre doppio zero ha pure lui
raggiunto la mezza età e ha voluto festeggiare con stile il suo 50°
anniversario. Il secolare contegno d’oltre Manica non viene a mancare,
regalandoci un festino ricco di saturo charme e pesato entusiasmo. Il cocktail
è sobrio, ma la ricetta è complessa; partiamo dal regista.
La
nomina di Sam Mendes a capo della direzione ha allarmato molti facendo sorgere
qualche domanda, e a buon diritto. Il regista britannico si è infatti distinto
per poche pellicole i cui soggetti, certo di grande impatto –American Beauty, per
cui gli è valso l’Oscar, Era mio Padre, Jarhead e Revolutionary Road –,sono tuttavia
incongruenti, nel contenuto come nella forma, agli
incredibili (“non” credibili) inseguimenti del super agente James Bond, o alle sue
assurde missioni, né ai leggeri e passionali amori. Eppure la scelta si è
rivelata azzeccata. Il film si è arricchito di un colore mai adoperato nella
saga, con consistenti pennellate cobalto e nostalgia. Non mancano le
mirabolanti azioni (visivamente sobrie ed efficacissime), ma Mendes sa alternare
con estremo gusto il thrilling del conflitto esteriore con la suspance di
lunghi spiazzanti silenzi e di dramma interiore. E qui suona il secondo campanello
d’allarme.
Il
Bond di Daniel Craig ci stupì già nel lontano 2006 quando Casino Royale dipinse un agente alle prime armi, impedito
professionalmente a provare rimorso: un problema tutto nuovo per 007 e il suo pubblico.
Torna due anni dopo in Quantum of Solace,
ma qualcosa non va: Bond è stanco, fisicamente consumato da un lutto che non ha
avuto tempo di assimilare; qualcosa di davvero mai visto.
Dopo
cinque anni la saga sente di invecchiare e il nostro agente con lei. Abbiamo
già avuto dei James Bond che ingrigivano, ma mai il super agente inglese si era
sentito tanto inadatto e fuori mano, e gli oscuri fantasmi del passato si fanno
più spaventosi del super crimine organizzato. Questo nuovo capitolo vorrà,
infatti, indagare l’infanzia di Bond, un lato di lui che non abbiamo mai
conosciuto, e alle sparatorie con laser e corse nei bunker e bottoni rossi e dispositivi
nucleari, si preferiranno invece fredde campagne delle Highlands, un vecchio
cottage vittoriano in pietra viva, torbide fiamme arancioni, gelide acque di un
verde lago e i ricordi di un bambino celati in un nero cimitero: poesia per gli
occhi e il cuore.
A
firmare il tutto: una fotografia discreta e saporita, un cast di attori
eccellente – un eccezionale Bardem per un villain eccezionale, una sempre
efficace Judi Dench e un sottile e ben piazzato Ralph Fiennes – e come sempre i
titoli di testa, che da soli valgono un quarto del biglietto.
Qualcuno
ha gradito poco una “tale sovversione tematica”, vedendovi la morte dell’ontologico
007. Ma se questo è il prezzo perché cresca nuovo frutto da un vecchio arbusto,
allora prendi la mira come un cecchino austriaco, e sparagli con la foga di un
texano alla notte del 4 luglio.
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