Dall’incontro di ieri tra il Capo del Governo Mario Monti,
con seguito di Ministri, e i vertici di Fiat (Marchionne e il giovane
Presidente John Elkann, nato a New York il primo aprile 1976) non è emerso in sostanza niente di
significativo sul futuro dell’industria dell’auto in Italia, ne del resto ci si
poteva aspettare qualcosa di diverso. I numeri del mercato dell’auto di questi
mesi e quelli più importanti della crisi economica in atto sono a conoscenza di
tutti noi.
Quello che di interessante è invece emerso dall’incontro di
ieri è la concezione che i nostri industriali, i nostri capitalisti hanno del
momento storico che stiamo vivendo. Quello che Marchionne e il giovane Elkann
hanno detto a Monti in sostanza è che la Fiat non ha problemi in quella parte
del mondo, in quei Paesi dove esistono e vengono somministrati aiuti statali
per l’ insediamento di nuovi impianti produttivi in cambio dell’assunzione di
migliaia di lavoratori che però vengono “assunti”, aggiungiamo noi, subordinando
il lavoro alle necessità temporali e produttive del mercato del singolo Paese. In
altre parole: se il mercato cresce e gli aiuti di Stato sostengono sia la
produzione sia, ancora meglio, la domanda, allora la Fiat investe, assume
lavoratori e in questo caso i problemi non esistono, il cerchio si chiude. Per
rendere esplicito il quadro descritto si vedano gli insediamenti Fiat in
Brasile, in Serbia, ma anche nella patria del capitalismo, gli Stati
Uniti. Questo in sintesi il concetto
espresso dai vertici Fiat. Purtroppo in Italia non è più possibile attuare questo
modus operandi per via delle leggi comunitarie e quindi i problemi di Fiat
rimangono e sono sotto gli occhi di tutti.
Tralasciamo qui il fatto che, se analizziamo la classifica
dei produttori di auto in Europa, non tutte le case produttrici in questi mesi hanno
perso volumi di vendite come li ha persi Fiat che ha fatto peggio degli altri,
segno di problematiche industriali peculiari del gruppo torinese.
Il problema è che, mentre in Europa gli aiuti alle imprese
sono vietati, seguendo una logica di concorrenza interna ai Paesi membri della
Comunità che per certi aspetti è corretta, negli altri Paesi, anche molto
vicini all’Unione Europea stessa (vedi Serbia) questi aiuti esistono e sono
anche importanti dal punto di vista finanziario ed economico tanto da far
decidere grandi imprese, vedi Fiat, a non investire in Italia, ma
per esempio a 500 Km di distanza trovando praticamente gli stessi fattori della
produzione, più gli aiuti, più una forza lavoro disposta a lavorare al 25% di
stipendio rispetto un operaio italiano. Ma in Serbia oggi il costo della vita è
più o meno proporzionato a quello stipendio. Come potrebbe l’Italia rendere competitivo il
costo del lavoro di un proprio operaio rispetto ad un operaio serbo? E comunque
sarebbe giusto il confronto?
Ancora: perché la Fiat dovrebbe continuare ad investire in
Italia con queste condizioni di mercato? In Italia, ma anche in Europa. La
guerra dello spread di questi ultimi mesi, è stata anche, di fatto, una guerra
commerciale interna tra le grandi imprese dei Paesi europei. Quelli sotto
pressione finanziaria (Italia e Spagna in primis) hanno visto le proprie
aziende industriali soffrire più delle altre a causa del downgrade finanziario.
Le aziende italiane e spagnole sono state costrette a pagare il denaro più
delle concorrenti tedesche o francesi quando si sono rivolte al mercato
finanziario per chiedere prestiti.
Ma se la situazione è questa e il mondo è sempre più piccolo
e ormai un’ impresa multinazionale può decidere di installare un nuovo impianto
produttivo dove più gli conviene trovando praticamente gli stessi fattori della
produzione ovunque, ha ancora senso per l’Europa continuare a non sostenere le proprie imprese (o almeno quelle che si
considerano ancora europee e mantengono tuttora, per poco tempo forse un qualche
legame “affettivo” con lo Stato d’origine
– come la Fiat con l’Italia per esempio) chiamate a confrontarsi in un mercato unico
mondiale dove però non esistono regole comuni e condizioni identiche riguardo al
mondo del lavoro (con annessi diritti minimi sindacali comuni) alla fiscalità
generale e alla normativa sulla tutela giuridica del commercio?
Il Trattato di Maastricht è stato firmato da dodici Paesi europei il 7/2/1992. Oggi i Paesi membri sono ventisette. L’Europa è cambiata, il mondo è cambiato. Forse la crisi attuale che stiamo vivendo è l’occasione per ripensare ad alcune decisioni prese in momenti diversi, più favorevoli dal punto di vista economico, che oggi però ci penalizzano a livello di sistema Europa e non ci permettono di rispondere con decisione alle nuove sfide che come cittadini europei ci troviamo a dover affrontare. Pensiamoci ora, prima che sia troppo tardi.
Il Trattato di Maastricht è stato firmato da dodici Paesi europei il 7/2/1992. Oggi i Paesi membri sono ventisette. L’Europa è cambiata, il mondo è cambiato. Forse la crisi attuale che stiamo vivendo è l’occasione per ripensare ad alcune decisioni prese in momenti diversi, più favorevoli dal punto di vista economico, che oggi però ci penalizzano a livello di sistema Europa e non ci permettono di rispondere con decisione alle nuove sfide che come cittadini europei ci troviamo a dover affrontare. Pensiamoci ora, prima che sia troppo tardi.
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