Boyhood, USA, 2014, Regia di Richard Linklater
Recensione di Alberto Bordin
Molti avranno sentito o pronunciato la fatidica frase “la vita non è un film” “la vita non è un romanzo”. È esattamente l’opposto: la vita è il più grande film, il più grande romanzo. Ed è questo che cerchiamo di fare noi, girando film e scrivendo romanzi: non solo “raccontare” la vita, ma farla riaccadere, far rivivere quella storia sorprendente, quell’inimitabile racconto; eppure nella nostra pochezza non possiamo che renderla artefatta. La nostra vita è un film come non saremo mai in grado di girarlo, un romanzo che non sapremo mai scrivere. La vita è davvero il più grande racconto: accade nonostante la nostra negligenza, cresce benché la nostra immaturità, genera ordine e significato dove noi troviamo solo caos e inconsistenza. È un racconto che si scrive da solo, non interpellato, un passo alla volta; e gli sceneggiatori di Boyhood sapevano che, perché il loro progetto funzionasse, avrebbero dovuto fare lo stesso.
Boyhood è un esperimento ambizioso che copre un arco di 12 anni. È la storia del piccolo Mason Jr., la sua avventura attraverso i dinamici anni dell’adolescenza, una sorella, due genitori divorziati, due matrimoni e tre case, il liceo, gli amori, la passione per la fotografia, fino all’età adulta e l’inizio di una vita fatta di responsabilità. Un progetto banale e una storia noiosa, se non fosse che il film ha veramente percorso 12 anni di vita del giovane. Iniziando le riprese nel 2002, ha trovato compimento nel 2014, pronto a concorrere all’Oscar come miglior film dell’anno. E la candidatura è meritata: il film è sorprendente.
Il racconto si muove sommesso in un mondo in mutamento. Cambiano gli attori che crescono e invecchiano con la naturalità e potenza che solo la vita sa rendere; ma cambia anche il contesto, la politica, le mode, le canzoni, i vestiti, la tecnologia. Un insieme di fattori, appunto, che non sarebbe stato possibile ideare fin nel suo incipit: si tratta di un progetto che andava accompagnato, o meglio, da cui bisognava lasciarsi accompagnare. Tutto ciò, ovvio, a discapito di un soggetto forte, di un racconto entusiasmante e originale; Boyhood è un esperimento che non si potrebbe ripetere una seconda volta senza generare un’inesorabile sensazione di noia, scontando già tutta la pesantezza di quasi tre ore di filmato. Ma l’originalità ideativa è sacrificata in favore di un altro tipo di originalità, ovvero di una “autenticità”.
La storia è ferma perché Mason lo è, ma non sarebbe potuto essere altrimenti; dopotutto il film non si intitola “Mason”, ma “Adolescenza”. Potremmo prospetticamente vedere quella come la vera protagonista, l’eroina che porta avanti l’azione della storia, l’elemento motore del cambiamento. Un motore in grado di trasformare le nostre fattezze fisiche, alterare la nostra voce, renderci più alti e affascinanti, farci dimagrire, ingrassare, ingrigire, scolpirci il mento e coprirlo di pelo; è la stessa forza motrice che trasforma il nostro atteggiamento, il nostro rapporto con il mondo: solo ieri il mondo di un bambino, oggi quello di un liceale, domani di un collegiale; oggi di un innamorato, domani di un cuore infranto. La vita ci trasforma anche quando non le chiediamo di farlo. Rimaniamo con lo sguardo fisso a terra, convinti nella nostra frustrazione dettata dall’inesorabilità degli eventi, ma non riconosciamo che quegli eventi inesorabili sono in continuo moto. Ripetiamo “è sempre la stessa storia” e nel frattempo quella storia ha cambiato registro due, tre, dieci volte, ed è solo la nostra incoscienza a trattenerci indietro, una cieca ignavia.
Boyhood è in grado di sorprenderci raccontandoci la storia più comune, quella di tutti giorni. Perché la realtà di tutti i giorni è una storia sorprendente. Perché la vita accade, e per questo è sorprendente. Ripetiamo sempre “insegui l’attimo”, ma “forse è esattamente l’opposto: è l’attimo che insegue te”.
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