Edge of Tomorrow, USA e Australia, 2014, Regia di Doug Liman
Recensione di Alberto Bordin
Mentre gli alieni conquistano l’Europa sgomentando le nostre forze armate a ogni nuovo attacco, il pavido ufficiale William Cage (Tom Cruise) viene strappato dalla sua campagna pubblicitaria per i nuovi e letali esoscheletri da battaglia destinati a cambiare le sorti della guerra, e, ridotto a soldato semplice per aver rifiutato di eseguire l’ordine affidatogli, è gettato controvoglia in prima linea durante un attacco “a sorpresa”, dentro uno di quegli stessi automi che ha finora venduto ma che non ha la più pallida idea di come utilizzare. Nella rovinosa disfatta, l’ufficiale Cage trova presto la morte incidentandosi con un alieno diverso dagli tutti gli altri, circostanza per la quale Cage sarà vittima del più inusuale degli eventi: morendo, il giorno ricomincerà ogni volta da capo, uguale al precedente, tranne per lui, che l’ha già vissuto; e così si ripeterà ogni volta, ogni giorno morendo, ogni giorno ricominciando. Sotto pressione della soldatessa Rita Vrataski (Emily Blunt), l’unica che gli crederà essendo stata vittima dello stesso sortilegio, Cage approfitterà del suo potere per cambiare definitivamente le sorti della guerra.
Edge of Tomorrow è un film ben scritto prima che ben realizzato e questo è sempre un colpo vincente per qualunque film; meglio, per qualunque storia. Lo sviluppo narrativo è intelligente e ironico. Svolge con semplicità ed economia la matassa del racconto, facendoci entrare in modo fluido nel vivo degli eventi; un plauso in particolare ai primi due minuti del film che riescono con parsimonia a inquadrare e focalizzare con precisione la vicenda bellica. Ma non di meno è notevole il funzionamento del meccanismo temporale: liscio, chiaro, “naturale”, districandosi sullo schermo senza ingarbugliarsi – impedendo la comprensione – né appiattirsi – annoiando alla visione. La linea narrativa, evidentemente colorata di fantascienza, segue ordinatamente, al ritmo di piani e picchi – come una frequenza cardiaca sull’elettrocardiografo – ed è in tutto ciò condita di vivace ironia. Perché quando la Morte non è più un ostacolo, se il titano più spaventoso e invitto, la nemesi di tutti gli uomini, viene non solo sconfitto ma sorpassato, scavallato come un semplice incidente di percorso: nient’altro, non c’è né ci sarà mai altro pericolo o “incidente” in grado di spaventarci. Cage morirà una, dieci, cento, mille volte – nemmeno lui terrà più il conto – nei modi più diversi e improbabili; e ciascuno di questi – sdrammatizzati ma altrimenti drammaticissimi – eventi, correranno impunemente sullo schermo, sotto le scrollate di spalle del protagonista e le frequenti risate del pubblico. L’assoluta reversibilità degli eventi minimizza fino al ridicolo ogni sofferenza del corpo.
Ma non quelle del cuore; e qui si annida la vera drammaticità e punta di genio del film. Perché se il corpo non ricorda il male subito, la mente lo fa, e sarà occupata prima dalla spossatezza, poi dalla noia e infine dal dolore della coscienza. Gli occhi di Rita, ogni giorno nuovi e ignari, non si accorgono del peso che si nasconde negli occhi di Bill, occhi vecchi e stanchi, occhi provati dal tempo che accresce ogni emozione e quella più sofferta di tutte: l’affetto. Bill s’innamorerà inevitabilmente di una donna con la quale vive una storia in solitario, amante non amato, memore e dimenticato. È un po’ il destino di Henry in “50 Volte il primo bacio”, ma certo è il medesimo di Phil in “Ricomincio da Capo” – non è certo un caso che entrambe le amate si chiamino Rita –: tre storie in cui, comunque si voglia, il destino vuole che l’amore di questi tre uomini rimanga in qualche modo sterile, ogni volta donato ma senza frutto, senza poter mettere radici, sempre dimenticato da tutti. Fuorché da loro.
E qui l’ultimo punto di genio umano, in un finale che forse perde nel soddisfare la logica ma vince affettivamente. Il tempo non è mai perso, nemmeno il tempo perduto. È sempre donato, ogni volta occasione di maturazione, di fare di quella coscienza sofferta la sostanza di un uomo nuovo. Non è passato nemmeno un giorno per il mondo eppure è passata un’eternità: il tempo necessario per un ufficiale codardo di meritare finalmente i propri gradi e divenire l’uomo che non è mai stato.
Edge of Tomorrow è un film ben scritto prima che ben realizzato e questo è sempre un colpo vincente per qualunque film; meglio, per qualunque storia. Lo sviluppo narrativo è intelligente e ironico. Svolge con semplicità ed economia la matassa del racconto, facendoci entrare in modo fluido nel vivo degli eventi; un plauso in particolare ai primi due minuti del film che riescono con parsimonia a inquadrare e focalizzare con precisione la vicenda bellica. Ma non di meno è notevole il funzionamento del meccanismo temporale: liscio, chiaro, “naturale”, districandosi sullo schermo senza ingarbugliarsi – impedendo la comprensione – né appiattirsi – annoiando alla visione. La linea narrativa, evidentemente colorata di fantascienza, segue ordinatamente, al ritmo di piani e picchi – come una frequenza cardiaca sull’elettrocardiografo – ed è in tutto ciò condita di vivace ironia. Perché quando la Morte non è più un ostacolo, se il titano più spaventoso e invitto, la nemesi di tutti gli uomini, viene non solo sconfitto ma sorpassato, scavallato come un semplice incidente di percorso: nient’altro, non c’è né ci sarà mai altro pericolo o “incidente” in grado di spaventarci. Cage morirà una, dieci, cento, mille volte – nemmeno lui terrà più il conto – nei modi più diversi e improbabili; e ciascuno di questi – sdrammatizzati ma altrimenti drammaticissimi – eventi, correranno impunemente sullo schermo, sotto le scrollate di spalle del protagonista e le frequenti risate del pubblico. L’assoluta reversibilità degli eventi minimizza fino al ridicolo ogni sofferenza del corpo.
Ma non quelle del cuore; e qui si annida la vera drammaticità e punta di genio del film. Perché se il corpo non ricorda il male subito, la mente lo fa, e sarà occupata prima dalla spossatezza, poi dalla noia e infine dal dolore della coscienza. Gli occhi di Rita, ogni giorno nuovi e ignari, non si accorgono del peso che si nasconde negli occhi di Bill, occhi vecchi e stanchi, occhi provati dal tempo che accresce ogni emozione e quella più sofferta di tutte: l’affetto. Bill s’innamorerà inevitabilmente di una donna con la quale vive una storia in solitario, amante non amato, memore e dimenticato. È un po’ il destino di Henry in “50 Volte il primo bacio”, ma certo è il medesimo di Phil in “Ricomincio da Capo” – non è certo un caso che entrambe le amate si chiamino Rita –: tre storie in cui, comunque si voglia, il destino vuole che l’amore di questi tre uomini rimanga in qualche modo sterile, ogni volta donato ma senza frutto, senza poter mettere radici, sempre dimenticato da tutti. Fuorché da loro.
E qui l’ultimo punto di genio umano, in un finale che forse perde nel soddisfare la logica ma vince affettivamente. Il tempo non è mai perso, nemmeno il tempo perduto. È sempre donato, ogni volta occasione di maturazione, di fare di quella coscienza sofferta la sostanza di un uomo nuovo. Non è passato nemmeno un giorno per il mondo eppure è passata un’eternità: il tempo necessario per un ufficiale codardo di meritare finalmente i propri gradi e divenire l’uomo che non è mai stato.
Nessun commento:
Posta un commento