Ricomincio da capo, USA, 1993, Regia di Harold Ramis
Recensione di Alberto Bordin
In verità non sono così rari i film sui loop temporali. Avere la fortuna – o la sciagura: dipende dal punto di vista – di rivivere un evento, o una serie concatenata di eventi, è una prospettiva che interroga molti, suscitando ora meraviglia, ora scalpore, ora terrore. Da una parte c’è la spesso anelata emancipazione dalle conseguenze del nostro agire, non più responsabili del futuro, non più spaventati dal domani; dall’altra invece, il terribile determinismo di quelle azioni, per cui volenti o nolenti ne siamo schiavi, incapaci di sottrarci a esse o prevenirne il ripetersi; infine le due strade sono interconnesse: la mancata responsabilità è il sintomo di una mancata libertà. E da qui molte teorie, ora filosofiche, ora morali, ora esistenziali, tante e diverse ma non per questo così originali. Eppure “Ricomincio da capo”, esce con elegante audacia dal mucchio.
Piccolo gioiello datato 1993, “Ricomincio da capo” (Groundhog Day), è la storia di Phil Connors (Bill Murray), narcisista meteorologo televisivo che è tenuto, controvoglia, a realizzare un reportage sulla tradizionale ricorrenza del 2 febbraio: il giorno della marmotta – in inglese, appunto, “groundhog day” –; la ricorrenza si tiene in una piccola cittadina della Pennsylvania, Punxsutawney, dove Phil sosta la notte prima del tedioso evento, e dove, causa un’imprevista bufera di neve, sarà costretto a pernottare di nuovo la notte successiva. Accade così, per volontà di un oscuro potere superiore, che Phil si alzerà dal suo letto e non sarà, come ragione vorrebbe, il 3 febbraio, ma sarà ancora ieri: il giorno della marmotta.
Dentro una comicità accattivante, una narrazione fresca e leggera come sanno esserlo le commedie natalizie d’oltre oceano, nonché una tenera storia d’amore che questo indegno eroe cercherà con fatica di costruire con la bella Rita (una giovane e radiosa Andie McDowell), quello che però distingue veramente “Ricomincio da capo” da una larghissima produzione di titoli simili è, appunto, l’audacia. Il film non si fa problemi a esaurire nel tempo massimo di venti minuti tutti i luoghi comuni e i percorsi già battuti da altre opere, o che il pubblico medio avrebbe sospettato di percorrere. La trama si muove abilmente e con elasticità tra episodi di euforia e altri di pura follia, rimbalzando tra la vittoria e la sconfitta del protagonista. Phil non dovrà fare i conti con una vita scevra da responsabilità o con una libertà tarpata – come sopra citato – né con il (pretenzioso) prevalere dell’una sull’altra, o, ancora riduttiva, la somma delle due; quello cui dovrà far fronte Phil, sarà la dolorosa constatazione che né l’una, né l’altra prospettiva potranno mai soddisfarlo.
Rivivere eternamente un giorno ci concede sia l’onnipotenza più alta che l’impotenza più assoluta, l’onniscienza più totale e la più scontata ineluttabilità. Cosa serve cambiare tutto se poi nulla può davvero cambiare?
Sarà da questa dolorosa constatazione che Phil, un giorno alla volta – per molti, moltissimi giorni: in questo forse sta la verità più grande di questo film –, dovrà imparare dentro l’esperienza che la sua persona è l’unico oggetto capace di crescere e mutare.
Nessun giorno è nuovo se il cuore è ancora vecchio, se l’anima non è ridestata dal desiderio e non è educata dall’obbedienza al reale. In un delicato e imprevedibile bagno di umiltà, Phil avrà modo di riscoprire la vitalità di un cuore giovane e innocente; e quel fatale giorno della marmotta potrà finalmente essere diverso da quello vecchio e degno di essere vissuto.
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