Rush, USA - Germania, 2013, Regia di Ron Howard
Recensione di Alberto Bordin
Ogni film incarna un’emozione. La digitalizza, nei suoi colori, nei suoi suoni, e nei suoi tempi. Non nelle sue parole, sia chiaro, perché il dialogo è la freccia di cui si arma l’arco del teatro ma non quello del cinema. Ed è per questo che forse i dialoghi artificiosi e le espressioni truffaldine di Rush non danno troppa noia, perché la vera sostanza di questo film sta da un’altra parte. Vibra del rombo dei motori, si anima del montaggio frenetico, si riempie dei colori saturi ma sempre pittoreschi, e s’infiamma di una colonna sonora dai tratti epici; è l’adrenalina l’emozione che anima la nuova pellicola di Ron Howard.
Il thrilling in sala, quando il film è la trasposizione di una storia vera, è una sensazione da scoprire con ammirazione: significa che lo sceneggiatore e il regista hanno saputo accattivarti, rimanendo tuttavia fedeli nella messa in scena di determinati avvenimenti; ma quando la storia e i suoi accadimenti principali sono pure noti al pubblico che quindi non si aspetta più sorprese, allora va riconosciuto un vero genio nei narratori che hanno saputo sorprenderti. Perché quella composizione sottile di colori, suoni e tempi è stata in grado di farti sperare quello che era già certo e temere quello che era risaputo. È quella tensione che film come “Operazione Valchiria” hanno saputo solo sfiorare, quando per un attimo nelle sale abbiamo incrociato le dita domandandoci se Hitler fosse veramente morto. E così, la battaglia senza esclusione di colpi tra il pilota inglese James Hunt e l’austriaco Niki Lauda, già nota ai più e messa nuovamente a nudo fin nel trailer per gli spettatori ignari, non si risparmia in nessuna ovvietà, raccontandoci invece con il candore dell’inedito l’avventura che tutti avremmo voluto conoscere a nuovo.
E tanta è la sincerità drammatica – forse non fino in fondo onesta ma non per questo falsa –: nell’autolesionismo di Hunt e il suo rifiuto per una vita che non sia portata al limite, nella caparbietà grottesca di Lauda la cui presunzione spegne la fiamma di qualunque empatia nei suoi riguardi, e poi nell’amore con le donne e nel loro disprezzo, e le menomazioni fisiche e le ancor più brutali cure ospedaliere, e gli insulti messi al tavolo con i giornalisti, e una strana lealtà che nasce pure nella violenza …
Forse manca un finale degno di chiamarsi tale, con l’emozione che va scemando da oltre dieci minuti, in un’ultima corsa in cui sembra giocarsi tutto e niente. Ma rimane innegabile la forza di quell’adrenalina che scorre nelle vene reclamando il ruolo di vera protagonista e sostanza della pellicola perché finalmente al suo posto, in un film che finalmente la merita rendendola meritevole: del nostro entusiasmo e della nostra ingordigia, meritevole di essere assaporata e gustata e di spegnersi senza chiedere altro, senza dover rimandare ad altro e lasciarci a bocca asciutta con un “e dunque?” sulle labbra. Perché è lei la signora e sovrana che ci offre Howard, la musa divina cui aspiriamo e che cantiamo, è lei che abbiamo visto sulle piste bagnate, nelle corse frenetiche, e negli occhi terrorizzati dalla vittoria di due campioni di Formula 1.
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