Della riforma del c.d. mondo del lavoro abbiamo già parlato in diversi articoli. Ora mi preme formulare alcune considerazioni conclusive sperando che il Governo Monti recepisca le istanze che vengono dai lavoratori e dai sindacati e comprenda che una riforma della legislazione su queste tematiche non si può fare in qualche settimana.
Punto primo, sull’articolo 18: la notizia è di settimana scorsa. L’Associazione degli artigiani di Mestre ha condotto un’indagine su quante aziende e quanti lavoratori sono soggetti all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Risultato: il 3% delle aziende italiane supera i 15 dipendenti, ma queste imprese impiegano il 65,5% dei lavoratori. Ma chi l’avrebbe mai detto… su oltre 5 milioni di imprese operanti in Italia, solo 150.000 aziende risultano interessate all’articolo 18; però su oltre 12 milioni di lavoratori dipendenti, circa 7,8 milioni di persone sono tutelate dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Conseguenza: come si può affermare che con la modifica/abrogazione dell’articolo 18 verrebbe colpita solo una minoranza dei lavoratori e che tale articolo non interessa quasi nessuno? Invece è solo una minoranza delle imprese che risulta interessata dall’articolo 18, mentre la stragrande maggioranza delle imprese italiane già ora è fuori dall’ambito di applicazione dell’articolo 18. Semmai, dal mio punto di vista, ci sarebbe da estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 18 anche ai lavoratori che ora ne sono esclusi, tenuto conto che il buon Legislatore dovrebbe estendere le tutele per i lavoratori, anziché ridurle, visto che il lavoro è l’attività su cui si fonda la Repubblica italiana.
Punto secondo: la ragione per cui l’Italia negli ultimi anni ha perso attrattiva per le aziende (italiane e straniere) che vogliono investire (in Italia) dipende, purtroppo, dalla mancanza di attrattiva del nostro sistema Paese. Per capirci i veri problemi per le aziende risiedono nella eccessiva burocratizzazione cui devono sottoporsi per avere permessi e autorizzazioni, per poter decidere con tempestività strategie aziendali che, in un mondo che viaggia alla velocità di internet, non possono soggiacere ai tempi autorizzativi della nostra Pubblica Amministrazione. Poi c’è il problema della certezza del diritto sul quale ogni imprenditore che vuole investire deve necessariamente poter contare per decidere dove spendere il proprio tempo e denaro. In Italia la crisi del sistema “giustizia” è ormai cronica. In questa occasione sarebbe inutile parlarne perché ci porterebbe fuori tema. Comunque non è possibile che un processo civile, magari proprio una causa su un licenziamento ritenuto illegittimo, arrivi a sentenza di primo grado in quattro/cinque anni. Questo si che è assurdo. Ma non è un problema legato all’articolo 18, ma alla cattiva amministrazione della giustizia che tiene lontani gli investitori dal nostro Paese. Terzo problema: nel nostro Paese negli ultimi anni è mancata una politica industriale capace di leggere il futuro prossimo e di creare quelle condizioni affinchè le medie e grandi aziende italiane pilotassero il cambiamento e riuscissero a rimanere attive e concorrenziali in primis sul mercato interno. L’Italia ha perso interi settori industriali negli ultimi lustri: la chimica è scomparsa, l’automobilistico ormai è ridotto al lumicino, il settore energetico è fragile e si potrebbe investire molto di più, ora è in crisi anche la moda, resiste l’agroalimentare a fatica, il turismo non è sfruttato al meglio, la cantieristica navale è agonizzante. Può un sistema Paese reggersi solo sul terziario? Quarto problema, quello fiscale. Non è di immediata e facile soluzione. Qui dirò solo che una pressione fiscale così elevata, sia per le aziende che per i lavoratori, non facilità gli investimenti degli imprenditori in Italia.
Punto terzo. Intendiamoci: la riforma del lavoro è necessaria tenuto conto che l’occupazione è in calo ormai da diversi anni e soprattutto la disoccupazione riguarda pesantemente i giovani, cioè coloro che dovranno sopportare il peso delle future pensioni. Pertanto la riforma del lavoro si collega automaticamente alla riforma del sistema pensionistico da un lato e deve presupporre una riflessione seria e approfondita sulla realtà economica attuale in cui si trova l’Italia. Non si può intervenire a gamba tesa su temi così delicati nel giro di un paio di mesi. Il Governo “tecnico” di Mario Monti non è stato chiamato a rivoltare l’Italia nel giro di un anno, ma solo a porre in atto, cosa che parzialmente ha già fatto, quelle misure straordinarie (e impopolari) che andavano prese per riportare la fiducia dell’Europa sulla serietà e capacità dei governanti italiani nell’affrontare la crisi economica, scongiurando un nuovo caso Grecia.
Va bene quindi porsi il problema della riforma del mercato del lavoro, ma il tema è di tale importanza che qualche riflessione più approfondita francamente credo che vada fatta.
Nessun commento:
Posta un commento