Da oltre nove mesi in Italia lo conoscono tutti. Probabilmente è la parola più cercata in rete in questo lasso di tempo. La maggior parte delle persone lo teme, una minoranza lo irride, pochi sono indifferenti alla sua presenza: solo quei disgraziati che già prima del suo arrivo non avevano niente da perdere. Esiste però anche un’altra minoranza formata da coloro che, come me, l’hanno visto da vicino. Il suo nome scientifico è Covid 19.
Le prime manifestazioni della sua presenza nel mio corpo risalgono a venerdì 6 novembre.
Dopo una settimana di cure casalinghe che non avevano portato ad alcun significativo miglioramento dello stato di salute, su indicazione del medico curante ho chiamato il 118 e sono stato condotto al pronto soccorso del Sacco, ospedale milanese riservato ai pazienti scelti dal virus per un’esperienza unica e speriamo irripetibile.
Appena giunto ho capito che il virus mi aveva dedicato una particolare attenzione, probabilmente gli stavo simpatico. Guardando lo schermo della macchina, che il medico che mi stava esaminando i polmoni aveva di fronte, ho visto una grande macchia biancastra. Allora ho chiesto: “Dottore, come sono messo?”
Risposta: “Sarà una dura lotta.”
In quel momento ho capito di essere stato prescelto dal virus.
Perché io?
Ho passato tre giorni nell’astanteria del P.S. (così in gergo ospedaliero viene indicato il pronto soccorso) disteso a pancia in giù su una barella con un casco in testa (CPAP il termine “tecnico”) dentro il quale veniva iniettato ossigeno alla massima potenza che mi permetteva di respirare, ma non di riposare.
Cosa ricordo di quelle ore?
Ricordo che pregavo il Signore che mi desse la forza di resistere ancora un minuto, per arrivare a quello successivo. Ricordo che, guardando di traverso, vedevo un gran via vai di malati, la maggior parte con il mio stesso abbigliamento da motociclista, con il casco in testa. Alcuni venivano trasportati in altri reparti e subito venivano rimpiazzati. Eravamo in tanti ad essere stati prescelti dal Covid 19.
Ricordo che pensavo che una situazione così non me la sarei proprio immaginata. L’unico termine di paragone che mi veniva in mente era un pronto soccorso militare in una zona di guerra, dove immagino vengano portati ogni cinque minuti i soldati feriti in combattimento.
E poi ricordai una frase che mi aveva detto un caro amico, al telefono, qualche giorno prima di essere ricoverato: Lorenzo, ricordati che il Signore non permette mai che qualcuno sia sottoposto a una dura prova senza che gli sia data la forza spirituale per affrontarla.
L’avrò io quella forza, mi chiedevo?
Dopo i tre giorni passati in astanteria, si liberò un posto nel reparto di infettivologia e fui trasferito lì: stanza con due letti, ma soprattutto avevo un letto vero, che è tutta un’altra cosa rispetto a una barella!
Trascorsi altri due giorni con il casco in testa (ma non in via continuativa) e finalmente i miei polmoni ripresero a funzionare meglio e così passai all’uso della “mascherina” che mi permetteva finalmente alla sera di poter riposare decentemente.
Nelle quasi due settimane di permanenza in reparto ho avuto due compagni di stanza: prima Pietro, un simpatico ex pescatore di Bisceglie di 82 anni, dimesso dopo qualche giorno e poi Egidio, un napoletano verace di 70 anni con il quale ci siamo fatti compagnia per una decina di giorni. Siamo stati dimessi lo stesso giorno, il 3 dicembre 2020, data in cui il Covid 19 ha deciso di lasciarci ritornare alla vita di tutti i giorni.
In realtà, la vita di tutti i giorni non è più la stessa: c’è stato un prima e c’è un dopo questa esperienza.
La domanda che mi pongo ogni giorno è: perché? Perché io?
Non ho mai creduto che le cose capitano per caso. Nella mia vita ho potuto verificare che ogni esperienza fuori dal comune, direi radicale come questa del Covid, ogni evento particolare, ogni svolta significativa mi ha condotto verso un nuovo punto di partenza e soprattutto mi ha permesso di compiere un passo in avanti nella consapevolezza di quello che è il mio desiderio incompiuto di felicità.
Ognuno di noi desidera essere felice e soprattutto desidera essere amato, prima di amare.
È un fatto: la vanità è la migliore arma nelle mani del Maligno. Quando ero disteso nella barella in astanteria pensavo a mia moglie, ai miei figli, ai miei genitori e ai tanti amici che mi stavano sostenendo con le loro preghiere, ed ero contento, quasi orgoglioso che fossero preoccupati per me. In quel momento ero al centro delle loro attenzioni, o almeno lo speravo. Il desiderio di essere amati si manifestava anche in quella situazione estrema, rischiosa per la mia stessa vita, che però desiderava essere al centro dell’attenzione di qualcuno anche in quel momento.
E quindi, cosa significa: che il destino mi ha sottoposto a questa dura prova solo per svelarmi che sono vanitoso e orgoglioso? Ma questo lo sapevo già.
E allora, mi ripeto, perché io?
Forse, un inizio di risposta mi è venuta in mente ripensando a Massimo Diana e al suo libro ‘Narrare’. Scrive il filosofo che ogni uomo nel corso della vita deve affrontare due eterni e universali problemi: imparare ad amare e prepararsi a morire.
Se ripenso alle tre settimane trascorse in ospedale, alla luce di questi due ultimi imperativi, allora l’esperienza fatta assume un significato più chiaro.
Stando immobile in un letto d’ospedale, bisognoso di tutto e di tutti, ho imparato ad amare i piccoli gesti gratuiti, come un sorriso, uno sguardo, una particolare attenzione nel farmi una puntura o nel cambiare una flebo, che mi venivano donati da medici e infermieri, amici e compagni di avventura. Piccole cose che normalmente non avrei neanche notato, apparentemente senza valore, ma che fanno la differenza quando si è con le spalle al muro.
Prepararsi a morire invece è la parte più difficile del cammino, perché è la meta a cui tutti noi tendiamo, ma senza volerlo accettare, anzi facciamo di tutto per dimenticare che è la stazione d’arrivo del nostro viaggio su questa terra. Probabilmente ogni tanto, fare qualche fermata intermedia, in qualche stazione apparentemente dimenticata da Dio, potrebbe anche farci bene, perché ci ricorda la destinazione finale a cui dobbiamo arrivare possibilmente in buone condizioni, cioè preparati, se non vogliamo restare delusi alla fine del viaggio. Perché la vera domanda che ognuno dovrebbe porsi è questa: ma quando arriveremo alla nostra personale stazione d’arrivo, troveremo qualcuno ad attenderci con le braccia aperte?
Ecco, probabilmente l’esperienza appena vissuta mi è stata proposta, stavo per scrivere donata, dal mio personale destino, per aiutarmi a ricordare questi due aspetti della vita, per meglio imparare ad apprezzare le piccole cose di tutti i giorni e per farmi fare un breve scalo in una stazione intermedia, per farmi prendere una pausa di riflessione durante il cammino che sto compiendo insieme ai miei compagni di viaggio.
E allora, in questo caso, quello che mi è capitato lo posso anche accettare, senza vanità e orgoglio, e posso anche arrivare ad augurare buon Natale al mio (quasi) amico Covid 19.